Nelle ore di punta

La caccia | Trasmessa il: 03/19/2006




Se, in autobus, perdo l’equilibrio e pesto il piede a qualcuno, gli rivolgo uno sguardo contrito e gli dico “Mi scusi”.  È un piccolo rituale sociale, imposto dalla buona educazione, ma non privo di un significato in sé abbastanza complesso.  Con quel “Mi scusi” riconosco di essere in colpa per il modesto oltraggio inferto al mio simile, ne dichiaro l’involontarietà e chiedo alla parte lesa di sanzionare, sia pure con un cenno del capo, un mezzo sorriso o un “Di niente” buttato lì a denti stretti, la relativa situazione di non ostilità sociale.  Gli ho pestato un piede, è vero, e proprio oggi mi ero messo gli scarponi chiodati, ma sono cose che capitano, io non mi considero suo nemico e, anzi, desidero che lui mi assicuri che a sua volta non mi considera tale.  Una volta avuta tale conferma, sarò libero di proseguire per la mia via certo di non lasciarmi alle spalle pendenze sgradevoli.

       O meglio, potrò farlo se parlo una lingua neolatina.  Perché non so se l’avete notato, ma in queste situazioni le usanze linguistiche delle principali nazioni europee non coincidono completamente.  Se il francese Pardonnez e lo spagnolo Descúlpeme riflettono abbastanza fedelmente il nostro Mi scusi  (forse un po’ più formale lo spagnolo e un filino più disinvolto il francese, specie nella forma concisa Pardon, ma sono cose che dipendono dalle rispettive consuetudini della vita associata), ben diverse sono le formule in uso nell’area germanica.  Gli anglofoni, si sa, si accontentano di un Sorry, che, com’è noto, vuol dire “spiacente”, il che significa, a ben vedere, che a loro dispiace, sì, di averti azzoppato, ma della tua reazione non gliene importa poi più che tanto e quello di scusarli o non scusarli è un problema esclusivamente tuo.  E l’atteggiamento in merito dei tedeschi è ancora più autoreferenziale, visto che il più delle volte si limitano a buttar lì un rapido Unschuldig che significa, alla lettera, “non colpevole”, nel senso che loro proprio non c’entrano, è stato un caso, può succedere a tutti e comunque non sentono bisogno di chiedere la tua comprensione.  Quella comprensione che, invece, nelle stesse circostanze invocano continuamente i greci, il cui Syngnómi mi è sempre sembrata la formula più raffinata che abbia mai sentito impiegare in questi casi  – come un appello alla comune fallibilità di tutti gli esseri umani – ma per usarla bisogna avere appunto alle spalle molta più civiltà di quanta possa vantarne il nostro occidente barbarico.

       Ora, io non so se pensasse a fenomeni del genere quel Benjamin Lee Whorf che, sviluppando certe tesi del suo maestro, il grande linguista americano Edward Sapir, avanzò nel 1958 l’ipotesi per cui ogni lingua comporta una visione del mondo, nel senso che non serve a esprimere le idee, ma a condizionarle e formarle.  È una teoria, questa (la “ipotesi di Sapir e Whorf”, come normalmente la si definisce, su cui i linguisti si sono azzannati a lungo e sul cui valore scientifico non si è mai raggiunta l’unanimità.  Io, personalmente, anche se sono naturalmente lieto di segnalare ai cultori della disciplina l’esempio delle formule di scusa, non ci ho mai creduto più che tanto.  Mi è sempre sembrato che, se è vero che le soluzioni linguistiche in uso in popoli diversi non sempre sono riducibili l’una all’altra senza residui (il che si può ben esprimere, volendo, con la formula delle “diverse visioni del mondo”) non è poi così necessario far dipendere la cosa dalla struttura linguistica in sé.  Molto dipende dai sistemi di valore che le varie comunità privilegiano e, più in generale, da quella entità concettuale maldefinita che chiamiamo con il termine di “cultura”.  E, tutto sommato, anche un italiano, in circostanze in cui ci si aspetterebbe un “Mi scusi” può rispondere con un “Non è colpa mia”.

       Ce lo prova, se mai di prove avessimo bisogno, tutto il dibattito politico di questi giorni.  E non è neanche necessario pensare al megadibattito televisivo di martedì scorso, quello in cui uno dei partecipanti, ogni volta che si veniva a parlare degli immani disastri che il paese, sotto la sua guida, ha subito negli ultimi cinque anni, si limitava a un convinto “io non c’entro”.    Lui è fatto così e le scuse sono quanto di più radicalmente estraneo alla sua visione del mondo si possa immaginare.  Ma gli altri?  I suoi collaboratori, i suoi ministri, i suoi portavoce e persino – per ciò che loro compete  – i suoi avversari?  E quelli che offendono l’altrui religione, che definiscono nazista la legislazione di un paese amico, che si autodefiniscono autori di solenni porcate e, in generale, offendono l’intelligenza e la buona volontà dei cittadini tutti, li avete mai sentiti scusarsi, quelli?   Se la campagna elettorale italiana si facesse in tedesco, si sentirebbero più Unschuldig alla RAI che sulla metropolitana di Berlino nell’ora di punta.


19.03.’06


Nota:  Per l’ipotesi di Sapir e Whorf si veda Language, Thought and Reality – Selected Writings of Benjamin Lee Whorf, a c. d. J. B. Carroll, Chapman & Hall, Londra, 1958; tr. it. di F: Ciafaloni, Linguaggio, pensiero e realtà, Boringhieri, Torino, 1970.  La mia posizione personale, per chi gli interessa, è espressa in La passeggiata, in Silvio Ceccato e Carlo Oliva, Il linguista inverosimile, Mursia, Milano, 1988.  Cfr. in particolare pg. 109 e s.