Nel contesto

La caccia | Trasmessa il: 06/04/2006




Ci sono certe dichiarazioni che, in circostanze date, sono inevitabili e altre che non si possono assolutamente fare.  Così, se voi foste eletti sindaco di una importante città dell’Italia settentrionale dopo una lunga e sofferta campagna, non vi compiacereste certo con la stampa, oltre che per la vostra vittoria, per la mortificazione di quanti vi si sono opposti, né manifestereste il proposito di schiacciarli, nei limiti, sotto il classico tallone di ferro.  Affermereste, al contrario, la volontà di essere il “sindaco di tutti”, auspicando l’istaurarsi dei rapporti di più fattiva e cordiale collaborazione con ogni forza sinceramente interessata al progresso e al benessere della metropoli.  Glissereste sulle richieste di giudizi sul vostro predecessore, non potendo, nel caso, né smentire l’operato di un vostro collega di schieramento, né esprimere il proposito di seguirne pedissequamente le tracce.  Direste che per definire la squadra, tutto sommato, c’è tempo e ci state pensando.  Ricorrereste, insomma, a una serie di proposizioni debitamente composte di soggetto, predicato e complementi, ma improntate al principio del minimo contenuto informativo possibile, certi della comprensione di una platea di interlocutori che ben sanno come funzionano queste cose e sono disposti ad accontentarsi, per ora, di qualche particolare insignificante ma pittoresco, tipo quali fotografie intendete piazzare sulla vostra scrivania e in quale genere grammaticale preferite che sia declinato il titolo che vi spetta.

       A questi saggi principi si è attenuta, finora, la signora Moratti,  come avrebbe fatto, d’altronde, il suo stesso rivale, nell’improbabile caso che avessero eletto lui.  Di concreto, oltre al desiderio di tenersi quante più deleghe possibile, che è cosa su cui qualsiasi sindaco concorderebbe, ma poi dipende se glielo permettono o no, ha specificato soltanto un dettaglio.  Ha detto che non le piace l’assetto attuale di piazza Cadorna – e fin qui c’è poco da obiettare –  e che non poco giovamento verrebbe a quell’angolo di città se ne venisse rimosso il monumento di Claes Oldenburg (“L’Ago e il Filo”) che da cinque anni vi sorge.  E poco importa che, signora come sempre, abbia voluto specificare che l’opera “in sé” non le dispiace, ma  è “il contesto” che non le si addice, per cui sarebbe meglio spostarla in un parco.  È ovvio che i monumenti si giudicano nel contesto in cui sono inseriti e che l’idea di sistemarli tra il verde, lontani dalla frequentazione quotidiana dei fruitori,  è semplicemente una tecnica per farli sparire, com’è capitato, a fine Ottocento, alla statua equestre di Napoleone III, esiliata, per sopraggiunti cambiamenti politici, in un’area fronzuta del parco Sempione dove non avrebbe dato (e non dà) fastidio a nessuno.

       A me, per quel poco che conta il mio giudizio, l’opera di Oldenburg non dispiace e mi pare di avervelo già confidato anni fa.  Ma non è questo il problema, naturalmente, perché chiunque, in materia, è libero di esprimere le opinioni che crede.  Il problema, mi sembra, verte piuttosto sul perché, dovendo esprimere, più che altro per necessità retorica, un proposito concreto, una singola indicazione fattiva dell’orientamento del proprio futuro lavoro, la neoeletta abbia scelto quel particolare.  Come se a Milano non ci fossero altri problemi aperti, altre immani questioni di insediamento, trasporti, edilizia, qualità della vita, salute pubblica, rapporti col territorio, organizzazione della convivenza sociale e culturale.  Come se dalla sorte di  quello che, tutto sommato, è solo un elemento di arredo urbano si potessero trarre gli auspici di cinque (o dieci) anni di futura amministrazione.

       D’altronde tutti l’hanno presa molto sul serio e sull’argomento i giornali già compiono sondaggi e raccolgono opinioni.  E si può anche capire.  Sappiamo tutti, in fondo, che un vero programma di giunta l’ottima Letizia lo potrà esprimere soltanto dopo le necessarie trattative con il sistema di poteri e contropoteri, interessi e controinteressi che le stanno alle spalle.  Che quindi, al di là delle personali intenzioni – che possono essere anche migliori di quanto sembrano –  finirà col proseguire con minime varianti creative la linea del pavone Albertini, che di quello stesso sistema era la diligente, sia pur forse più scialba,  espressione, con la differenza che di teatri alla Scala da distruggere e taroccare non ce ne sono più e gli spazi da destinare allo sfruttamento edilizio e da riempire di automobili fumiganti si stanno esaurendo.  Che la logica del quattrino e del controllo padronale sul territorio le precluderà qualsiasi colpo d’ala, mentre sa il cielo se non è di colpi d’ala che una città ridotta come la nostra ha bisogno.  Per cui, tanto vale rifugiarsi nel mondo sicuro dei simboli e delle immagini, concentrarsi sui monumenti o sulle panchine, sulla forma dei lampioni e sulle sfumature cromatiche delle insegne del tram.  È in questo contesto, ormai, che gli amministratori cittadini costruiscono (o distruggono) le proprie fortune, nella crescente consapevolezza del primato assoluto dell’apparire sul fare.  Il resto, come diceva quel tale, è silenzio.


04.06.’06