Ci sono certe dichiarazioni che, in circostanze date, sono inevitabili
e altre che non si possono assolutamente fare. Così, se voi foste
eletti sindaco di una importante città dell’Italia settentrionale dopo
una lunga e sofferta campagna, non vi compiacereste certo con la stampa,
oltre che per la vostra vittoria, per la mortificazione di quanti vi si
sono opposti, né manifestereste il proposito di schiacciarli, nei limiti,
sotto il classico tallone di ferro. Affermereste, al contrario, la
volontà di essere il “sindaco di tutti”, auspicando l’istaurarsi dei
rapporti di più fattiva e cordiale collaborazione con ogni forza sinceramente
interessata al progresso e al benessere della metropoli. Glissereste
sulle richieste di giudizi sul vostro predecessore, non potendo, nel caso,
né smentire l’operato di un vostro collega di schieramento, né esprimere
il proposito di seguirne pedissequamente le tracce. Direste che per
definire la squadra, tutto sommato, c’è tempo e ci state pensando. Ricorrereste,
insomma, a una serie di proposizioni debitamente composte di soggetto,
predicato e complementi, ma improntate al principio del minimo contenuto
informativo possibile, certi della comprensione di una platea di interlocutori
che ben sanno come funzionano queste cose e sono disposti ad accontentarsi,
per ora, di qualche particolare insignificante ma pittoresco, tipo quali
fotografie intendete piazzare sulla vostra scrivania e in quale genere
grammaticale preferite che sia declinato il titolo che vi spetta.
A questi saggi principi si è attenuta, finora,
la signora Moratti, come avrebbe fatto, d’altronde, il suo stesso
rivale, nell’improbabile caso che avessero eletto lui. Di concreto,
oltre al desiderio di tenersi quante più deleghe possibile, che è cosa
su cui qualsiasi sindaco concorderebbe, ma poi dipende se glielo permettono
o no, ha specificato soltanto un dettaglio. Ha detto che non le piace
l’assetto attuale di piazza Cadorna – e fin qui c’è poco da obiettare
– e che non poco giovamento verrebbe a quell’angolo di città se
ne venisse rimosso il monumento di Claes Oldenburg (“L’Ago e il Filo”)
che da cinque anni vi sorge. E poco importa che, signora come sempre,
abbia voluto specificare che l’opera “in sé” non le dispiace, ma è
“il contesto” che non le si addice, per cui sarebbe meglio spostarla
in un parco. È ovvio che i monumenti si giudicano nel contesto in
cui sono inseriti e che l’idea di sistemarli tra il verde, lontani dalla
frequentazione quotidiana dei fruitori, è semplicemente una tecnica
per farli sparire, com’è capitato, a fine Ottocento, alla statua equestre
di Napoleone III, esiliata, per sopraggiunti cambiamenti politici, in un’area
fronzuta del parco Sempione dove non avrebbe dato (e non dà) fastidio a
nessuno.
A me, per quel poco che conta il mio giudizio,
l’opera di Oldenburg non dispiace e mi pare di avervelo già confidato
anni fa. Ma non è questo il problema, naturalmente, perché chiunque,
in materia, è libero di esprimere le opinioni che crede. Il problema,
mi sembra, verte piuttosto sul perché, dovendo esprimere, più che altro
per necessità retorica, un proposito concreto, una singola indicazione
fattiva dell’orientamento del proprio futuro lavoro, la neoeletta abbia
scelto quel particolare. Come se a Milano non ci fossero altri problemi
aperti, altre immani questioni di insediamento, trasporti, edilizia, qualità
della vita, salute pubblica, rapporti col territorio, organizzazione della
convivenza sociale e culturale. Come se dalla sorte di quello
che, tutto sommato, è solo un elemento di arredo urbano si potessero trarre
gli auspici di cinque (o dieci) anni di futura amministrazione.
D’altronde tutti l’hanno presa molto sul
serio e sull’argomento i giornali già compiono sondaggi e raccolgono opinioni.
E si può anche capire. Sappiamo tutti, in fondo, che un vero
programma di giunta l’ottima Letizia lo potrà esprimere soltanto dopo
le necessarie trattative con il sistema di poteri e contropoteri, interessi
e controinteressi che le stanno alle spalle. Che quindi, al di là
delle personali intenzioni – che possono essere anche migliori di quanto
sembrano – finirà col proseguire con minime varianti creative la
linea del pavone Albertini, che di quello stesso sistema era la diligente,
sia pur forse più scialba, espressione, con la differenza che di
teatri alla Scala da distruggere e taroccare non ce ne sono più e gli spazi
da destinare allo sfruttamento edilizio e da riempire di automobili fumiganti
si stanno esaurendo. Che la logica del quattrino e del controllo
padronale sul territorio le precluderà qualsiasi colpo d’ala, mentre sa
il cielo se non è di colpi d’ala che una città ridotta come la nostra
ha bisogno. Per cui, tanto vale rifugiarsi nel mondo sicuro dei simboli
e delle immagini, concentrarsi sui monumenti o sulle panchine, sulla forma
dei lampioni e sulle sfumature cromatiche delle insegne del tram. È
in questo contesto, ormai, che gli amministratori cittadini costruiscono
(o distruggono) le proprie fortune, nella crescente consapevolezza del
primato assoluto dell’apparire sul fare. Il resto, come diceva quel
tale, è silenzio.
04.06.’06