Di solito, quando la nostra magistratura
produce qualche sentenza o pronunciamento di quelli che fanno discutere,
che dividono l’opinione pubblica e scatenano salutari polemiche, c’è
sempre qualche anima pensosa che salta su a dire che prima di esprimersi
in merito bisogna aspettare di leggere le motivazioni. Il consiglio,
nella sua ovvietà, meriterebbe di essere seguito senza riserve, se non
fosse che, in genere, quando quelle motivazioni vengono rese note (di solito
a parecchi mesi di distanza), della sentenza e delle vicende che l’hanno
provocata non interessa più niente a nessuno e nessuno, di conseguenza,
le legge. Di fatto, come ha ricordato l’altra sera Adriano Sofri
in televisione, nel corso della trasmissione di Gad Lerner, è rarissimo
che chi ricorda agli altri che bisogna leggere quelle carte poi si prenda
la briga di farlo davvero, o, se per avventura lo fa, vi trovi qualcosa
da dire. E in ogni caso, lui, Sofri, che le motivazioni dell’ordinanza
con la quale la Corte di Assise di Brescia negava a lui e ai suoi coimputati
la revisione del processo se le era evidentemente lette da cima a fondo,
e vi aveva trovato di che dolersene, era in contraddittorio con tre eminenti
magistrati cui quell’ordinanza andava, tutto sommato, benissimo (perché
le ordinanze sono ordinanze, perché le Corti sono Corti, perché il Diritto
è il Diritto), ma si erano ben guardati dal leggere le 105 pagine che la
componevano.
I
magistrati, evidentemente, non si leggono tra di loro. Salvo quando
vi sono tenuti per obbligo professionale, fuggono l’uno dalle elucubrazioni
dell’altro con lo zelo con cui i gatti scottati si tengono lontani dall’acqua
bollente. In quella trasmissione non ce n’era uno che avesse preso
visione di uno qualsiasi della decina di pronunciamenti contraddittori
che hanno preceduto l’ordinanza bresciana, nemmeno di quella celebre “sentenza
suicida” che, anni fa, capovolse, con discutibile artificio dialettico,
un verdetto di assoluzione che avrebbe potuto essere definitivo. Né
la loro ignoranza, si badi, si limitava al processo Calabresi: uno di essi,
non avendo letto, a suo tempo, le carte del processo di piazza Fontana,
non avrebbe potuto nemmeno escludere che Valpreda non fosse, tutto sommato,
colpevole.
Costui,
speriamo, esagerava per amore di tesi. I suoi colleghi non avevano
letto le carte del processo Calabresi, ma erano sicuri lo stesso che si
fosse trattato di un processo “giusto”, che la colpevolezza dei condannati
non dovesse essere messa in discussione. Liberi dalla necessità
di confrontarsi con le contraddizioni, le imprecisioni, gli errori, le
arbitrarietà e le affermazioni gratuite di cui quelle carte sono farcite,
potevano esprimere serenamente il convincimento per cui la magistratura,
il corpo cui appartenevano loro stessi, ha sempre ragione e che se la logica
e il buonsenso sembrerebbero prospettare un’altra ipotesi, tanto peggio
per la logica e per il buonsenso.
Naturalmente
neanch’io ho letto quelle motivazioni, salvo per gli excerpta resi noti
dalla stampa. E non le hanno lette neanche i tanti cittadini che
– come voi tutti, presumo – nella decisione della Corte di Brescia hanno
visto un ennesimo caso di giustizia negata. Il fatto è che noi crediamo
nella logica e nel buonsenso, e quindi ci rendiamo conto che se una Corte
chiamata a decidere se vi sono prove aggiuntive da prendere in considerazione
in un nuovo processo risponde che sì, per esserci quelle prove ci sono,
ma il processo è inutile farlo lo stesso perché quelle sono prove che non
valgono niente, esorbita dal suo compito ed entra in contraddizione con
se stessa, perché celebra implicitamente (in forma anomala) un processo
che nega si possa o si debba celebrare. E crediamo nei principi
del diritto, secondo i quali non si può condannare se sussistono dubbi
sulla colpevolezza, e quale colpevolezza può essere più dubbiosa di quella
per affermare la quale ci sono volute tanti pronunciamenti contraddittori?
E sappiamo, soprattutto, che la condanna di Sofri, Bompressi e Pietrostefani
rappresenta il tassello definitivo di un teorema politico giudiziario su
cui molti poteri pubblici si sono impegnati allo spasimo e sul quale si
gioca, ancor oggi, la loro credibilità e la credibilità dei metodi che
sono stati impiegati per risolvere la crisi degli anni ‘70. Un
ipotetico proscioglimento di quei tre getterebbe molte ombre sulla ricostruzione
ufficiale della nostra storia recente, per non dire della prassi giudiziaria
fondata sull’accettazione a priori delle dichiarazioni dei pentiti. Metterebbe
in discussione, in definitiva, il fragile equilibrio attualmente vigente
tra un certo potere giudiziario e gli altri poteri costituiti.
Certo,
per qualche magistrato queste sono solo indebite “invasioni di campo”.
Di fronte al coro di critiche e di prese di posizione, il procuratore
Borrelli ha pensato bene di dichiarare che “forse la civiltà del diritto
sta tramontando”, perché “non si crede più alle motivazioni” e “il
linguaggio del diritto non è più compreso nemmeno dalle persone di cultura”.
Senza farsi neanche sfiorare dal dubbio per cui il linguaggio di
un diritto che voglia essere davvero tale deve lasciarsi comprendere da
tutti, perché tutti, uomini di cultura o analfabeti, devono essere in grado
di criticarlo. Ma sappiamo tutti che sottrarsi alla critica in nome
dell’ignoranza di chi la esprime, oltre che essere un segno di disprezzo
che sulle labbra di un personaggio così importante non sta certo bene,
resta da sempre l’estremo argomento di chi non ne ha proprio altri.
07.03.’99