Motivazioni

La caccia | Trasmessa il: 03/07/1999



Di solito, quando la nostra magistratura produce qualche sentenza o pronunciamento di quelli che fanno discutere, che dividono l’opinione pubblica e scatenano salutari polemiche, c’è sempre qualche anima pensosa che salta su a dire che prima di esprimersi in merito bisogna aspettare di leggere le motivazioni.  Il consiglio, nella sua ovvietà, meriterebbe di essere seguito senza riserve, se non fosse che, in genere, quando quelle motivazioni vengono rese note (di solito a parecchi mesi di distanza), della sentenza e delle vicende che l’hanno provocata non interessa più niente a nessuno e nessuno, di conseguenza, le legge.  Di fatto, come ha ricordato l’altra sera Adriano Sofri in televisione, nel corso della trasmissione di Gad Lerner, è rarissimo che chi ricorda agli altri che bisogna leggere quelle carte poi si prenda la briga di farlo davvero, o, se per avventura lo fa, vi trovi qualcosa da dire.  E in ogni caso, lui, Sofri, che le motivazioni dell’ordinanza con la quale la Corte di Assise di Brescia negava a lui e ai suoi coimputati la revisione del processo se le era evidentemente lette da cima a fondo, e vi aveva trovato di che dolersene, era in contraddittorio con tre eminenti magistrati cui quell’ordinanza andava, tutto sommato, benissimo (perché le ordinanze sono ordinanze, perché le Corti sono Corti, perché il Diritto è il Diritto), ma si erano ben guardati dal leggere le 105 pagine che la componevano.
        I magistrati, evidentemente, non si leggono tra di loro.  Salvo quando vi sono tenuti per obbligo professionale, fuggono l’uno dalle elucubrazioni dell’altro con lo zelo con cui i gatti scottati si tengono lontani dall’acqua bollente.  In quella trasmissione non ce n’era uno che avesse preso visione di uno qualsiasi della decina di pronunciamenti contraddittori che hanno preceduto l’ordinanza bresciana, nemmeno di quella celebre “sentenza suicida” che, anni fa, capovolse, con discutibile artificio dialettico, un verdetto di assoluzione che avrebbe potuto essere definitivo.  Né la loro ignoranza, si badi, si limitava al processo Calabresi: uno di essi, non avendo letto, a suo tempo, le carte del processo di piazza Fontana, non avrebbe potuto nemmeno escludere che Valpreda non fosse, tutto sommato, colpevole.
        Costui, speriamo, esagerava per amore di tesi.  I suoi colleghi non avevano letto le carte del processo Calabresi, ma erano sicuri lo stesso che si fosse trattato di un processo “giusto”, che la colpevolezza dei condannati non dovesse essere messa in discussione.   Liberi dalla necessità di confrontarsi con le contraddizioni, le imprecisioni, gli errori, le arbitrarietà e le affermazioni gratuite di cui quelle carte sono farcite, potevano esprimere serenamente il convincimento per cui la magistratura, il corpo cui appartenevano loro stessi, ha sempre ragione e che se la logica e il buonsenso sembrerebbero prospettare un’altra ipotesi, tanto peggio per la logica e per il buonsenso.
        Naturalmente neanch’io ho letto quelle motivazioni, salvo per gli excerpta resi noti dalla stampa.  E non le hanno lette neanche i tanti cittadini che – come voi tutti, presumo – nella decisione della Corte di Brescia hanno visto un ennesimo caso di giustizia negata.   Il fatto è che noi crediamo nella logica e nel buonsenso, e quindi ci rendiamo conto che se una Corte chiamata a decidere se vi sono prove aggiuntive da prendere in considerazione in un nuovo processo risponde che sì, per esserci quelle prove ci sono, ma il processo è inutile farlo lo stesso perché quelle sono prove che non valgono niente, esorbita dal suo compito ed entra in contraddizione con se stessa, perché celebra implicitamente (in forma anomala) un processo che nega si possa o si debba celebrare.   E crediamo nei principi del diritto, secondo i quali non si può condannare se sussistono dubbi sulla colpevolezza, e quale colpevolezza può essere più dubbiosa di quella per affermare la quale ci sono volute tanti pronunciamenti contraddittori?   E sappiamo, soprattutto, che la condanna di Sofri, Bompressi e Pietrostefani rappresenta il tassello definitivo di un teorema politico giudiziario su cui molti poteri pubblici si sono impegnati allo spasimo e sul quale si gioca, ancor oggi, la loro credibilità e la credibilità dei metodi che sono stati impiegati per risolvere la crisi degli anni ‘70.   Un ipotetico proscioglimento di quei tre getterebbe molte ombre sulla ricostruzione ufficiale della nostra storia recente, per non dire della prassi giudiziaria fondata sull’accettazione a priori delle dichiarazioni dei pentiti.  Metterebbe in discussione, in definitiva, il fragile equilibrio attualmente vigente tra un certo potere giudiziario e gli altri poteri costituiti.
        Certo, per qualche magistrato queste sono solo indebite “invasioni di campo”.  Di fronte al coro di critiche e di prese di posizione, il procuratore Borrelli ha pensato bene di dichiarare che “forse la civiltà del diritto sta tramontando”, perché “non si crede più alle motivazioni” e “il linguaggio del diritto non è più compreso nemmeno dalle persone di cultura”.  Senza farsi neanche sfiorare dal dubbio per cui il linguaggio di un diritto che voglia essere davvero tale deve lasciarsi comprendere da tutti, perché tutti, uomini di cultura o analfabeti, devono essere in grado di criticarlo.  Ma sappiamo tutti che sottrarsi alla critica in nome dell’ignoranza di chi la esprime, oltre che essere un segno di disprezzo che sulle labbra di un personaggio così importante non sta certo bene, resta  da sempre l’estremo argomento di chi non ne ha proprio altri.

07.03.’99