Non mi sembra che l’opinione pubblica internazionale sia stata colpita
più che tanto dalla scomparsa di Slobodan Milosevic. Di fatto, non
ce n’era motivo. L’ex presidente jugoslavo aveva fatto parlare
molto di sé, ma oggi era, sotto tutti gli aspetti, un sopravvissuto. Il
processo in cui era imputato davanti alla corte internazionale dell’Aja
si era impantanato da tempo e anche i pochi che ci avevano creduto all’inizio
si erano resi conto che da quella sede era vano aspettarsi una definizione
qualsiasi delle responsabilità del massacro balcanico. Le autorità
di quel tribunale e quelle del connesso carcere di Scheveningen hanno superato
con impeccabile cinismo l’imbarazzo di chi si vede morire tra le mani
un imputato eccellente e non c’è stato neanche bisogno di portare avanti
la trama, che pure qualche volonteroso aveva suggerito, di un suicidio
più o meno volontario, magari compiuto grazie alla complicità degli avvocati
secondo il vecchio e sperimentato modello Stammhein. C’è stata,
sì, qualche protesta a Mosca, a Belgrado e in posti del genere e non devono
essere stati pochi i cittadini serbi che hanno avuto l’impressione di
aver subito una qualche ingiustizia, ma, nel complesso, ha prevalso il
silenzio. Il capitolo è chiuso ed è molto probabile che, nonostante
le dichiarazioni di questi giorni, presto chiuderà anche il tribunale.
Il fatto è che di Milosevic si parla malvolentieri.
Non era un personaggio simpatico. Non poteva esserlo, a prescindere
dalle colpe che avrà sicuramente avuto nella crisi finale del suo paese,
per il modo stesso in cui era stata costruita la sua immagine pubblica
nei paesi occidentali. È stato, in un certo senso, l’ultimo epigono
di una lunga serie di “tiranni” internazionali, di quegli esemplari di
iniquità cui era così comodo addebitare in blocco le sofferenze dei rispettivi
popoli e che sono fioriti negli ultimi decenni del secolo scorso in larga
parte del mondo sottosviluppato. Ha rappresentato, giornalisticamente
parlando, una specie di variante europea alla genia dei Bokassa, degli
Amin Dada, dei Pol Pot (la stessa, in fondo, che sarebbe stata riproposta
più tardi con il personaggio di Saddam Hussein): tutta gente che ai tempi
loro è stata utilmente additata all’esecrazione universale e caricata
di ogni genere di accuse e responsabilità, per poi confondersi sullo sfondo
e svanire nel nulla una volta esaurita la propria funzione. Che è
sempre stata, in sostanza, quella di rendere il più difficile possibile
ogni tentativo di ragionare sulle responsabilità di tutt’altri personaggi
e tutt’altri governi.
La logica dell’operazione, in definitiva, è fin troppo nota: è quella
per cui la messa in risalto delle nefandezze dei vari dittatori africani
e asiatici serviva a spostare in secondo piano le molte colpe del colonialismo
e, se mi permettete di recuperare oggi un termine così fuori moda, dell’imperialismo.
Anche in Jugoslavia, tutto considerato, c’era molto bisogno di un
“cattivo”, di qualcuno che si potesse maledire prima e poi catturare
e mettere sotto processo. E se poi il processo, per un motivo o per
l’altro (morte dell’imputato inclusa) non si fosse potuto portare a termine,
tanto meglio, visto che cerimonie del genere, per quanto prudentemente
siano organizzate, comportano comunque dei rischi e le sentenze migliori,
dal punto di vista di chi le organizza, sono quelle che si pronunciano
prima del dibattimento.
Tutto ciò, come è ovvio, non esonera né Milosevic né gli altri summenzionati
figuri dalle loro personali responsabilità, ma non è questo il problema.
In fondo, per quante ne abbia combinate non è stato certamente lui
da solo a scatenare il nazionalismo nel suo paese e a mandare in pezzi
il vecchio equilibrio jugoslavo. Che era fragile e precario di suo,
ma se non altro funzionava meglio di quanto è venuto dopo e comunque metteva
in campo una serie di valori interessanti – il tentativo di far convivere
in pace e solidarietà più popoli divisi tra loro da vecchie inimicizie,
la ricerca di una formula originale di autogestione dell’economia, il
rifiuto della logica internazionale dei blocchi contrapposti – la cui
sdegnosa eliminazione non ha certo portato fortuna al paese. Dal
cui smembramento, figuriamoci, qualcuno ci avrà guadagnato di certo, per
cui è ragionevole presumere che sia stato quel qualcuno a promuoverlo.
Il governo tedesco, per esempio, ci aveva i suoi bravi interessi
e la chiesa cattolica anche. Ma non sono stati i loro esponenti,
naturalmente, a finire sotto processo.
19.03.’06