Ho una rivelazione da farvi. Non
so cosa pensiate voi del monumento all’ago e al filo in piazzale Cadorna,
ma a me, devo ammetterlo, non dispiace. Il monumento, dico, non tutta
la piazza: penso anch’io che quelle tettoie verdi di fronte all’ingresso
della Stazione Nord siano, al tempo stesso, fastidiose e banali; ritengo
come voi tutti che l’aver versato alla compagna Aulenti tutti quei miliardi
per averle progettate sia stato un dispendio criminale di pubblico danaro
e devo avervi già confidato, in qualche sede, il convincimento per cui
la nostra città non ha tanto bisogno di opere di abbellimento, quanto di
sostanziosi interventi in termini di servizi e vivibilità. Ma da
questa giunta di narcisi e pavoni non si può pretendere altro e quell’ago
e quel filo, in sé, proprio non riesco a farmeli dispiacere. Forse
è perché mi piace troppo l’idea di un monumento che non sia dedicato,
una volta tanto, a una strage o a un qualche eminente propugnatore della
necessità di commetterne una, ma che abbia come soggetto uno strumento
di lavoro, un arnese mediante il quale uomini e donne si guadagnano onestamente
la vita. O forse perché ogni volta che vedo un ago mi viene in mente
come sia assai più probabile che un cammello passi per la sua cruna piuttosto
che un ricco ponga piede in Paradiso. Anche quell’ago, che pure
è ingrandito parecchie migliaia di volte rispetto ai modelli comunemente
in uso, non è di misura tale da offrire un varco sicuro alle navi del deserto
e la sua presenza in piazza, quindi, dovrebbe valere da monito per tutti
coloro che pur esercitando senza scrupoli sugli altri il potere del soldo
si illudono di avere comunque il libero accesso nel regno dei cieli.
Avrete
capito – suppongo – che non intendo invitarvi a un dibattito in materia
di estetica. È un tema, questo, sul quale non sono qualificato a
parlare e, oltretutto, non credo che oggi esista in materia una criteriologia
abbastanza accettata perché se ne possa discutere con qualche profitto.
Ma è anche vero che, dal punto di vista estetico, quel monumento
ha suscitato delle reazioni piuttosto decise. La maggior parte delle
persone con cui ne ho parlato lo considerano, con licenza parlando, una
boiata pazzesca e ne lamentano con energia l’avvenuta installazione. Ed
è strano, a pensarci bene. Milano è piena di monumenti che per un
motivo o per l’altro gridano vendetta al cielo e pure non suscitano nel
cittadino medio particolari reazioni di ripugnanza. Limitiamoci pure
alle opere contemporanee e lasciamo da parte, per comodità, busti e statue
del tardo ‘800, anche se ci sarebbe molto da dire sullo spettrale Parini
del Cordusio, sul tronfio Cavour dell’omonima piazza e sugli altri bronzi
sparsi qua e là per il centro. Ma ammetterete anche voi che non è
facile trovare, con tutta la buona volontà, qualcosa che superi in bruttezza
il monumento ai bersaglieri del Verziere, o, che so, quello ai carabinieri
in piazza Diaz. E provate a rievocare alla mente, se ne avete cuore,
le due graffette giganti di piazza Conciliazione o quella strana combinazione
di cerchi e cunei metallici visibile dalle parti del palazzo della Triennale,
al Parco Sempione e sarete d’accordo con me sul fatto che in nome dell’Arte,
negli ultimi decenni, si sono commessi più delitti a Milano di quanti ne
siano stati commessi altrove in nome della Libertà.
Ma
se nessuno protesta per il monumento ai bersaglieri e tutti si lamentano
per l’ago e il filo, un motivo dovrà ben esserci. In parte, ovviamente,
è perché ci si abitua a tutto. E in parte, suppongo, perché la maggior
parte dei monumenti moderni tendono, in un modo o nell’altro, a non farsi
notare. Si può percorrere più volte, a piedi o in tram, il tratto di strada
tra largo Augusto e piazza Fontana senza accorgersi che in zona sorga monumento
alcuno (e, credetemi, è meglio così). E lo stesso succede, più o
meno, negli altri casi che vi ho citato. Nel loro uniforme grigiore
metallico e cementizio, quegli oggetti si confondono nel grigiore uniforme
del paesaggio. Nonostante la goffaggine delle forme astratte che
ostentano, o forse proprio per quella, riescono misteriosamente a mimetizzarsi.
L’occhio scivola su di loro e passa rapidamente altrove. Nessuno
li percepisce per quel che sono e per quello che rappresentano e nessuno
si chiede, quindi quale sia il senso della loro presenza. Sono monumenti
che, a onta della loro destinazione etimologica, che dovrebbe essere quella
di “ricordare” alla gente qualcosa, non riescono a far ricordare neanche
se stessi. Da questo punto di vista non sono né belli né brutti: sono semplicemente
insignificanti. E quindi, tutto sommato, innocui.
Almeno
l’ago di Oldenburg, sulla cui bellezza o bruttezza mi permetterete di
non pronunciarmi, innocuo non è. Non solo perché è a colori e noi
i monumenti a colori non li concepiamo: siamo abituati al bianco dei marmi
e al grigio verde dei bronzi e diffidiamo da combinazioni cromatiche più
elaborate. Questo è soltanto un problema di pigrizia intellettuale.
Il fatto è che, nella sua stessa riconoscibilità, quella cosa lì
è dannatamente incongrua. È sicuramente un ago, non ci sono dubbi,
e perché diavolo bisogna mettere in piazza un ago gigante, con tanto di
filo? Per celebrare il lavoro, usurpando, in un certo senso, il ruolo
classico della falce e martello? Improbabile, vista anche l’impostazione
ideologica di chi ce l’ha fatto mettere. Per suscitare nei passanti
pensieri irriverenti sui cammelli e sul regno dei cieli? Anche questa
è un’ipotesi sulla quale pochi si sentirebbero di scommettere. E
allora?
Probabilmente
l’irritazione che quel monumento suscita nei più deriva proprio dal fatto
che a quella domanda non è facile dare una risposta adeguata. Ma
che volete che vi dica: io sono sempre stato convinto che farsi delle domande
sia sempre una pratica salutare. In questa nostra realtà urbana,
così poco stimolante, un oggetto che pone dei problemi dovrebbe essere
sempre il benvenuto. Certo, con il tempo ci abitueremo anche alla
sua presenza, ma per ora godiamoci quel poco di inquietudine che ci porta.
27.02.’00