Monumenti

La caccia | Trasmessa il: 02/20/2000



Ho una rivelazione da farvi.  Non so cosa pensiate voi del monumento all’ago e al filo in piazzale Cadorna, ma a me, devo ammetterlo, non dispiace.  Il monumento, dico, non tutta la piazza: penso anch’io che quelle tettoie verdi di fronte all’ingresso della Stazione Nord siano, al tempo stesso, fastidiose e banali; ritengo come voi tutti che l’aver versato alla compagna Aulenti tutti quei miliardi per averle progettate sia stato un dispendio criminale di pubblico danaro e devo avervi già confidato, in qualche sede, il convincimento per cui la nostra città non ha tanto bisogno di opere di abbellimento, quanto di sostanziosi interventi in termini di servizi e vivibilità.  Ma da questa giunta di narcisi e pavoni non si può pretendere altro e quell’ago e quel filo, in sé, proprio non riesco a farmeli dispiacere.  Forse è perché mi piace troppo l’idea di un monumento che non sia dedicato, una volta tanto, a una strage o a un qualche eminente propugnatore della necessità di commetterne una, ma che abbia come soggetto uno strumento di lavoro, un arnese mediante il quale uomini e donne si guadagnano onestamente la vita.  O forse perché ogni volta che vedo un ago mi viene in mente come sia assai più probabile che un cammello passi per la sua cruna piuttosto che un ricco ponga piede in Paradiso.  Anche quell’ago, che pure è ingrandito parecchie migliaia di volte rispetto ai modelli comunemente in uso, non è di misura tale da offrire un varco sicuro alle navi del deserto e la sua presenza in piazza, quindi, dovrebbe valere da monito per tutti coloro che pur esercitando senza scrupoli sugli altri il potere del soldo si illudono di avere comunque il libero accesso nel regno dei cieli.
        Avrete capito – suppongo – che non intendo invitarvi a un dibattito in materia di estetica.  È un tema, questo, sul quale non sono qualificato a parlare e, oltretutto, non credo che oggi esista in materia una criteriologia abbastanza accettata perché se ne possa discutere con qualche profitto.  Ma è anche vero che, dal punto di vista estetico,  quel monumento ha suscitato delle reazioni piuttosto decise.  La maggior parte delle persone con cui ne ho parlato lo considerano, con licenza parlando, una boiata pazzesca e ne lamentano con energia l’avvenuta installazione.  Ed è strano, a pensarci bene.  Milano è piena di monumenti che per un motivo o per l’altro gridano vendetta al cielo e pure non suscitano nel cittadino medio particolari reazioni di ripugnanza.  Limitiamoci pure alle opere contemporanee e lasciamo da parte, per comodità, busti e statue del tardo ‘800, anche se ci sarebbe molto da dire sullo spettrale Parini del Cordusio, sul tronfio Cavour dell’omonima piazza e sugli altri bronzi sparsi qua e là per il centro.  Ma ammetterete anche voi che non è facile trovare, con tutta la buona volontà, qualcosa che superi in bruttezza il monumento ai bersaglieri del Verziere, o, che so, quello ai carabinieri in piazza Diaz.  E provate a rievocare alla mente, se ne avete cuore, le due graffette giganti di piazza Conciliazione o quella strana combinazione di cerchi e cunei metallici visibile dalle parti del palazzo della Triennale, al Parco Sempione e sarete d’accordo con me sul fatto che in nome dell’Arte, negli ultimi decenni, si sono commessi più delitti a Milano di quanti ne siano stati commessi altrove in nome della Libertà.
        Ma se nessuno protesta per il monumento ai bersaglieri e tutti si lamentano per l’ago e il filo, un motivo dovrà ben esserci.  In parte, ovviamente, è perché ci si abitua a tutto.  E in parte, suppongo, perché la maggior parte dei monumenti moderni tendono, in un modo o nell’altro, a non farsi notare. Si può percorrere più volte, a piedi o in tram, il tratto di strada tra largo Augusto e piazza Fontana senza accorgersi che in zona sorga monumento alcuno (e, credetemi, è meglio così).   E lo stesso succede, più o meno, negli altri casi che vi ho citato.  Nel loro uniforme grigiore metallico e cementizio, quegli oggetti si confondono nel grigiore uniforme del paesaggio.  Nonostante la goffaggine delle forme astratte che ostentano, o forse proprio per quella, riescono misteriosamente a mimetizzarsi.  L’occhio scivola su di loro e passa rapidamente altrove.  Nessuno li percepisce per quel che sono e per quello che rappresentano e nessuno si chiede, quindi quale sia il senso della loro presenza.   Sono monumenti che, a onta della loro destinazione etimologica, che dovrebbe essere quella di “ricordare” alla gente qualcosa, non riescono a far ricordare neanche se stessi. Da questo punto di vista non sono né belli né brutti: sono semplicemente insignificanti.  E quindi, tutto sommato, innocui.
        Almeno l’ago di Oldenburg, sulla cui bellezza o bruttezza mi permetterete di non pronunciarmi, innocuo non è.  Non solo perché è a colori e noi i monumenti a colori non li concepiamo: siamo abituati al bianco dei marmi e al grigio verde dei bronzi e diffidiamo da combinazioni cromatiche più elaborate.  Questo è soltanto un problema di pigrizia intellettuale.  Il fatto è che, nella sua stessa riconoscibilità, quella cosa lì è dannatamente incongrua.  È sicuramente un ago, non ci sono dubbi, e perché diavolo bisogna mettere in piazza un ago gigante, con tanto di filo?  Per celebrare il lavoro, usurpando, in un certo senso, il ruolo classico della falce e martello?  Improbabile, vista anche l’impostazione ideologica di chi ce l’ha fatto mettere.  Per suscitare nei passanti pensieri irriverenti sui cammelli e sul regno dei cieli?  Anche questa è un’ipotesi sulla quale pochi si sentirebbero di scommettere.  E allora?
        Probabilmente l’irritazione che quel monumento suscita nei più deriva proprio dal fatto che a quella domanda non è facile dare una risposta adeguata.   Ma che volete che vi dica: io sono sempre stato convinto che farsi delle domande sia sempre una pratica salutare.  In questa nostra realtà urbana, così poco stimolante, un oggetto che pone dei problemi dovrebbe essere sempre il benvenuto.  Certo, con il tempo ci abitueremo anche alla sua presenza, ma per ora godiamoci quel poco di inquietudine che ci porta.

27.02.’00