Messaggi

La caccia | Trasmessa il: 01/09/2000



Non so se avete seguito tutti, la sera dell’ultimo dell’anno, il messaggio televisivo di auguri del Presidente della Repubblica.  Io, vi confesso, no.  Mi ero accinto alla bisogna con quello spiccato senso del dovere civico che da sempre mi caratterizza, ma ho resistito pochissimo.  Poche volte, in vita mia, mi era capitato di ascoltare una tale sequenza di insignificanti banalità e il tono con cui il Presidente le pronunciava, lo ammetterete, non era tale da far prevedere degli sviluppi esaltanti.  Per cui, di fronte al rischio di addormentarmi pesantemente e perdermi le lenticchie e il brindisi di mezzanotte, mi sono affrettato a spegnere il televisore, come suppongo avrete fatto anche voi, e con voi la maggioranza dei nostri compatrioti, compresi i colleghi giornalisti che di quel messaggio avrebbero dovuto riferire nei quotidiani di due giorni dopo e che infatti se la sono cavata con dei resoconti puramente di maniera.  Il fatto che siano riusciti, nonostante tutto, a riempire le sei sette colonne assegnate all’evento testimonia dell’ingegnosità e della competenza professionale di una categoria troppo spesso calunniata.
        Il Presidente, d’altra parte, più di tanto non poteva fare.  Tra tutti i generi letterari, quello del messaggio presidenziale di auguri è senza dubbio il più precettivo.  Uno non può fare gli auguri ai concittadini dal Quirinale e dire, così alla buona, ragazzi non facciamoci troppe illusioni, guardiamo in faccia la dura realtà e rendiamoci conto che il sistema fa acqua da tutte le parti.  Non può dire, in quell’occasione festosa, che l’economia va così e così, che gli imprenditori si dedicano soprattutto all’accattonaggio istituzionale, che la classe politica fa più schifo che altro e che il livello culturale è sempre più basso, per cui le nuove generazioni non possono sperare nulla di buono per il futuro e d'altronde, visti i loro atteggiamenti correnti, si meritano ampiamente quello che gli capiterà.  Non suonerebbe bene e poi se lo dicesse gli aprirebbero una procedura d’impeachment prima ancora dell’Epifania.   Per cui, poveraccio, deve dire che, nel complesso, il bilancio è positivo: che tutti stanno facendo il loro dovere, che ci sono dei problemi, certo, e come potrebbero non esserci, ma lavorando tutti insieme li supereremo senz’altro e i giovani, che della nazione sono la speranza più bella, devono soprattutto avere fiducia.  Poi potrà aggiungere qualcosa d’altro, secondo i tempi e le usanze, ma non più di tanto.  La sostanza, non si scappa, deve essere quella.  E le aggiunte più succose, naturalmente, se le potranno permettere quelli che sono d’indole, diciamo, un po’ birichina e non si fanno scrupoli a debordare dal ruolo che costituzionalmente gli spetta, litigando tra le righe con il Presidente del Consiglio in carica, come faceva Scalfaro, o a lanciando, in forma più o meno dissimulata, complesse bordate di insulti ai nemici prossimi e remoti, come abbiamo sentito fare all’inevitabile Cossiga.  Ma chi birichino proprio non è, come l’ottimo Carlo Azeglio, di possibilità ne ha ben poche.  Deve mettersi lì, dietro la sua scrivania, con le sue brave bandiere di fianco, ad affliggere se stesso e chi lo sta ad ascoltare con venti minuti di futilità, che, per essere tranquillizzanti non sono meno tediose.
        In realtà, Ciampi – gliene sia reso il dovuto merito – qualcosa l’ha fatto.  Ha ripristinato la scrivania.  Il suo predecessore, lo ricorderete, l’aveva abolita.  Si faceva riprendere in poltrona accanto al caminetto e fingeva di essere un buon papà, o un buon nonno alla mano, di quelli a cui i nipoti vogliono tanto bene perché dispensano la loro saggezza senza rompere veramente le scatole a nessuno.  Ed era un’immagine ovviamente falsa: tanto falsa da far venire il voltastomaco ai telespettatori più incalliti.  Capirete: se proprio dobbiamo essere rappresentati al più alto livello istituzionale da vecchi professionisti della politica, usi a ogni intrigo e a ogni manovra di entrambe le repubbliche, è sempre meglio che si presentino come tali, per quello che sono.  Di nonni e papà ciascuno ha avuto i suoi e, di solito, gli sono ampiamente bastati.  La scrivania, con il suo effetto di separazione, lui di là e noi di qua, ha l’indubbio vantaggio di rimettere le cose a posto.  Nessuna persona normale si azzarderebbe a intrattenersi in poltrona da pari a pari con uno Scalfaro, mentre quella di trovarsi dall’altra parte di una scrivania rispetto a una figura di potere (preside, capoufficio, giudice, primario o che altro) è un’esperienza che, una volta o l’altra, abbiamo fatto tutti.
        Purtroppo non credo che il Presidente Ciampi abbia scelto la scrivania in nome di questa, pur necessaria, distinzione dei ruoli.   Secondo me, lui l’ha voluta per metterci sopra il monitor del computer.  Un monitor, ricorderete, di quelli di ultima generazione, ultrapiatto e, presumibilmente, ad altissima risoluzione.  E sfido: era quello, in fondo, il messaggio.  Un computer fa managerialità.  Fa tecnico, fa esperto di qualche cosa.  Ciampi, si sa, è un gentiluomo: non direbbe mai una parola contro i suoi predecessori, ma non poteva mancare di sottolineare il fatto di essere, diversamente da loro, un mago delle tecniche economiche e finanziarie, uno che ha portato il paese in zona euro e che è intenzionato a tenercelo a costo di (farci) perire nel tentativo.  È su questa immagine che ha sempre giocato tutta la sua carriera politica, mentre Cossiga, poveretto, organizzava i ruoli dei gladiatori e Scalfaro prendeva a schiaffi nei ristoranti le signore troppo scollate, e non si vede perché avrebbe dovuto rinunciarci.  Ma dato che si loda si imbroda, ha preferito affidare il relativo memento a un oggetto: al muto, ma non per questo meno eloquente, monitor del computer.  Tanto è vero che, affinché a nessun cittadino sfuggisse quella suggestiva presenza, ha fatto disporre lo schermo rivolto verso le telecamere, in una posizione che, a prima vista, si direbbe alquanto demenziale, perché non serve niente a nessuno avere sulla propria scrivania un computer il cui monitor è rivolto verso chi gli sta di fronte e su cui lui non può leggere, ma che era in ultima analisi, perfettamente funzionale, allo scopo che quella presenza si prefiggeva.  Perché non è detto che un monitor visto da retro si possa identificare per quello che è e nella società del telespettacolo le parole volano, ma le immagini restano ed è sempre meglio affidarsi alle icone che alle espressioni verbali.
Tanto, diciamocelo, i messaggi dei politici chi li sta a sentire?

09.01.’00