Spero che mi permetterete, in questi giorni di esultanza referendaria,
di spendere qualche parola per giustificare il mio attaccamento al caro,
vecchio, sistema proporzionale, quello in cui le varie forze politiche
chiedono ciascuna il voto per sé, in base ai propri programmi e alla propria
identità culturale, se ne dispongono, e i seggi disponibili sono assegnati
in proporzione – appunto – ai voti raccolti. Lo faccio con una
certa titubanza, perché so che oggi il proporzionale non è esattamente
à la page: so che è una cosa arretrata, fuori moda, un’anticaglia da prima
repubblica, una piaga solennemente rimossa dal corpo istituzionale dal
pronunciamento plebiscitario del 18 aprile 1993, e sopravvissuta sotto
forma di quella modesta, se pur fastidiosissima, “quota”, di cui il referendum
prossimo venturo ci libererà una volta per tutte. Ma ve ne chiedo
comunque il permesso, perché alla logica trionfante del maggioritario,
quella per cui chi vince, sia pure di un’incollatura, si becca tutto e
gli altri si grattano, che volete che vi dica, proprio non riesco a rassegnarmi.
Vedete, molte persone ragionevoli mi hanno
assicurato che il problema non è quello di quale dei due sistemi sia più
o meno giusto, che è questione astratta, praticamente impossibile da dirimere,
ma quello, assai più concreto, della loro funzionalità. Il nostro
sistema parlamentare soffre di una forma grave di instabilità da frammentazione.
Troppe forze politiche, troppi partitini, troppi galli nel pollaio.
Il maggioritario, per sua natura, determina quella rude semplificazione
delle forze in campo su cui si fonda ogni governabilità. Onde ben
venga il referendum, che, sia pur vagamente truffaldino nell’impostazione,
visto che avrà una funzione consultiva e propositiva che la Costituzione
non gli assegna, permetterà comunque ai cittadini di compiere un passo
avanti in quella tanto auspicata direzione.
Sarà. Ma, a prescindere da fatto che
quando un certo svolgimento è così largamente auspicato, io (come voi,
suppongo) tendo a diffidarne, dal sospetto che questo modo di stabilire
un rapporto tra sistema elettorale e funzionamento del sistema politico
soffra, per così dire, di una certa meccanicità non riesco a liberarmi.
Il maggioritario, nelle sue diverse varianti, funziona benissimo
in Francia e in Gran Bretagna, e un po’ meno negli Stati Uniti, ma sappiamo
che altrove (che so: in India o in quasi tutta l’America Latina) finora
è servito ben poco. E d'altronde al proporzionale si affidano senza
problemi la maggior parte dei paesi dell’Unione Europea, a partire dalla
Germania. I quaranta partiti e passa che ci affliggono sono sicuramente
troppi, ma la maggior parte di loro è stata inventata dopo il referendum
che ha lanciato il maggioritario. Se i partiti proliferano l’uno
sull’altro come cellule impazzite, vorrà dire che la loro identità è troppo
debole e che i loro rapporti con gli elettori non sono abbastanza determinati,
il che è una tipica manifestazione di frattura tra ceto politico e società
civile e con il sistema elettorale vigente c’entra solo fino a un certo
punto. Nel complesso, la logica di chi attribuisce alla quota proporzionale
la responsabilità di tutte le nostre traversie non mi sembra troppo diversa
da quella di chi, soffrendo di febbre, ne dà la colpa al termometro.
E allora, pur dando per scontato che tutti
i sistemi elettorali hanno i loro pregi e i loro difetti, mi consentirete
di restare affezionato a quello che, assicurando a chi vota, la massima
possibilità di scelta, garantisce che gli eletti rappresentino gli elettori
con quanta più approssimazione possibile. E di guardare con una certa
ansietà a un referendum (il prossimo) che dovrebbe affibbiarci una legge
in base alla quale 155 deputati su 630 non saranno eletti né con il metodo
proporzionale né con quello maggioritario, ma solo in quanto migliori secondi
arrivati (cioè migliori sconfitti) nei rispettivi collegi maggioritari,
Con il risultato di ribaltare automaticamente qualsiasi possibile
risultato, garantendo che la maggioranza parlamentare non corrisponda a
quella degli elettori, perché capirete che se un deputato su quattro va
a infoltire le schiere degli sconfitti può benissimo capitare che gli sconfitti,
alla fin fine, si trovino a essere più numerosi dei vincitori. Con
tanti cari saluti a quel principio di rappresentanza in nome del quale
sono state inventate le democrazie moderne.
D’altronde, è questa la linea su cui i nostri
politici si sono avviati da tempo: il disinteresse, se non il disprezzo,
per la rappresentanza. Pensate, se avete avuto cuore di sorbirvele,
alle grottesche polemiche di questi giorni. Stringi stringi si riducono
a un’interessante controversia tra il buon Prodi, che è stato eletto senza
avere un partito alle spalle, grazie a voti graziosamente forniti da qualcun
altro, e che un partito sta pensando di costituerselo ex post, e il bizzarro
Cossiga, che è senatore a vita, cioè non è stato eletto per niente, e i
cui seguaci sono stati mandati in Parlamento con tutt’altro scopo che
quello di seguire lui. Entrambi, se vigesse un corretto sistema proporzionale,
non rappresenterebbero altro che se stessi. Ma, che volete, entrambi
sono politici navigati, di quelli che sanno che, di fronte alle superiori
esigenze della governabilità, gli elettori, con le loro fisime, non possono
che creare inutili complicazioni. Ancora un paio di referendum e
di queste complicazioni la politica italiana potrà fare a meno una volta
per tutte.
24.01.’99