Logiche elettorali

La caccia | Trasmessa il: 01/24/1999




Spero che mi permetterete, in questi giorni di esultanza referendaria, di spendere qualche parola per giustificare il mio attaccamento al caro, vecchio, sistema proporzionale, quello in cui le varie forze politiche chiedono ciascuna il voto per sé, in base ai propri programmi e alla propria identità culturale, se ne dispongono, e i seggi disponibili sono assegnati in proporzione – appunto – ai voti raccolti.  Lo faccio con una certa titubanza, perché so che oggi il proporzionale non è esattamente à la page: so che è una cosa arretrata, fuori moda, un’anticaglia da prima repubblica, una piaga solennemente rimossa dal corpo istituzionale dal pronunciamento plebiscitario del 18 aprile 1993, e sopravvissuta sotto forma di quella modesta, se pur fastidiosissima, “quota”, di cui il referendum prossimo venturo ci libererà una volta per tutte.  Ma ve ne chiedo comunque il permesso, perché alla logica trionfante del maggioritario, quella per cui chi vince, sia pure di un’incollatura, si becca tutto e gli altri si grattano, che volete che vi dica, proprio non riesco a rassegnarmi.

       Vedete, molte persone ragionevoli mi hanno assicurato che il problema non è quello di quale dei due sistemi sia più o meno giusto, che è questione astratta, praticamente impossibile da dirimere, ma quello, assai più concreto, della loro funzionalità.  Il nostro sistema parlamentare soffre di una forma grave di instabilità da frammentazione.  Troppe forze politiche, troppi partitini, troppi galli nel pollaio.  Il maggioritario, per sua natura, determina quella rude semplificazione delle forze in campo su cui si fonda ogni governabilità.   Onde ben venga il referendum, che, sia pur vagamente truffaldino nell’impostazione, visto che avrà una funzione consultiva e propositiva che la Costituzione non gli assegna, permetterà comunque ai cittadini di compiere un passo avanti in quella tanto auspicata direzione.

       Sarà.   Ma, a prescindere da fatto che quando un certo svolgimento è così largamente auspicato, io (come voi, suppongo) tendo a diffidarne, dal sospetto che questo modo di stabilire un rapporto tra sistema elettorale e funzionamento del sistema politico soffra, per così dire, di una certa meccanicità non riesco a liberarmi.  Il maggioritario, nelle sue diverse varianti, funziona benissimo in Francia e in Gran Bretagna, e un po’ meno negli Stati Uniti, ma sappiamo che altrove (che so: in India o in quasi tutta l’America Latina) finora è servito ben poco.  E d'altronde al proporzionale si affidano senza problemi la maggior parte dei paesi dell’Unione Europea, a partire dalla Germania.  I quaranta partiti e passa che ci affliggono sono sicuramente troppi, ma la maggior parte di loro è stata inventata dopo il referendum che ha lanciato il maggioritario.  Se i partiti proliferano l’uno sull’altro come cellule impazzite, vorrà dire che la loro identità è troppo debole e che i loro rapporti con gli elettori non sono abbastanza determinati, il che è una tipica manifestazione di frattura tra ceto politico e società civile e con il sistema elettorale vigente c’entra solo fino a un certo punto.  Nel complesso, la logica di chi attribuisce alla quota proporzionale la responsabilità di tutte le nostre traversie non mi sembra troppo diversa da quella di chi, soffrendo di febbre, ne dà la colpa al termometro.

       E allora, pur dando per scontato che tutti i sistemi elettorali hanno i loro pregi e i loro difetti, mi consentirete di restare affezionato a quello che, assicurando a chi vota, la massima possibilità di scelta, garantisce che gli eletti rappresentino gli elettori con quanta più approssimazione possibile.  E di guardare con una certa ansietà a un referendum (il prossimo) che dovrebbe affibbiarci una legge in base alla quale 155 deputati su 630 non saranno eletti né con il metodo proporzionale né con quello maggioritario, ma solo in quanto migliori secondi arrivati (cioè migliori sconfitti) nei rispettivi collegi maggioritari,  Con il risultato di ribaltare automaticamente qualsiasi possibile risultato, garantendo che la maggioranza parlamentare non corrisponda a quella degli elettori, perché capirete che se un deputato su quattro va a infoltire le schiere degli sconfitti può benissimo capitare che gli sconfitti, alla fin fine, si trovino a essere più numerosi dei vincitori.  Con tanti cari saluti a quel principio di rappresentanza in nome del quale sono state inventate le democrazie moderne.

       D’altronde, è questa la linea su cui i nostri politici si sono avviati da tempo: il disinteresse, se non il disprezzo, per la rappresentanza.  Pensate, se avete avuto cuore di sorbirvele, alle grottesche polemiche di questi giorni.  Stringi stringi si riducono a un’interessante controversia tra il buon Prodi, che è stato eletto senza avere un partito alle spalle, grazie a voti graziosamente forniti da qualcun altro, e che un partito sta pensando di costituerselo ex post, e il bizzarro Cossiga, che è senatore a vita, cioè non è stato eletto per niente, e i cui seguaci sono stati mandati in Parlamento con tutt’altro scopo che quello di seguire lui.  Entrambi, se vigesse un corretto sistema proporzionale, non rappresenterebbero altro che se stessi.  Ma, che volete, entrambi sono politici navigati, di quelli che sanno che, di fronte alle superiori esigenze della governabilità, gli elettori, con le loro fisime, non possono che creare inutili complicazioni.   Ancora un paio di referendum e di queste complicazioni la politica italiana potrà fare a meno una volta per tutte.


24.01.’99