L'odore del denaro

La caccia | Trasmessa il: 01/18/2009


    Che il denaro sia, per sua natura, assolutamente inodore, lo ha stabilito una volta per tutte l'imperatore Vespasiano circa duemila anni fa. Al figlio Tito, che riteneva poco dignitosi i ricavi di una tassa sull'uso di quegli stabilimenti pubblici che avrebbero tramandato il nome del padre fino ai giorni nostri, mostrò una lucida moneta di argento e commentò il gesto con un lapidario “Non olet”, “non puzza”. Né Tito né altri ebbero, da allora in poi, alcunché da obiettare.

    In un recente racconto di Giorgio Mascitelli – un giovane autore la cui opera mi capita di seguire da non pochi anni, per cui tanto giovane forse non è – la tesi del primo dei Flavii è messa, in qualche modo, in discussione. Vi ci si racconta, infatti, di come un “barbone” extracomunitario – o meglio, un “lavoratore ucraino in mobilità e flessibilità internazionali”, di quelli usi a frequentare, nella nostra ospitale città, la Stazione Centrale, si veda regalare da uno sconosciuto in cappotto di cammello due banconote di cinquecento euro, che tuttavia non riesce in alcun modo a spendere. Infatti, coloro cui si rivolge (negozianti, ristoratori, commessi, benintenzionati generici) o sospettano che quei soldi siano di provenienza illecita e non vogliono esserne compromessi o, semplicemente, ritengono che un barbone non possa disporre di cifre del genere e si rifiutano, quindi, di prendere in considerazione ogni protesta in tal senso. Di fatto, non lo ascoltano nemmeno: preferiscono, se mai, regalargli qualcosa. Inevitabile, per il protagonista, il sospetto per cui, contrariamente alle leggi implacabili del profitto, “in alcuni casi, come il suo, il denaro puzza per una sorta di proprietà transitiva.”
    La spiegazione non tarda a manifestarsi. “Le leggi del profitto” come spiega subito dopo l'autore” non sono così universali ... e piuttosto coesistono con una serie di usanze e leggicole di poco momento, che ci si vergogna quasi a nominare, ma sono in realtà importantissime e le prime mai e poi mai le troverai pure in natura.” Il problema del protagonista, in sostanza, è un problema di immagini e modelli e delle aspettative che queste immagini e questi modelli suscitano negli altri. Da uno come lui non ci si aspetta che abbia dei soldi e quindi non gli si permette di spenderne anche quando, per avventura, ne ha. E anche se quelle due banconote gli erano state regalate, all'inizio, “come segno di ammirazione” per la sua “vita libera”, perché quello della libertà del vagabondo, immune da obblighi sociali e da responsabilità operative, è un mito ben radicato nell'immaginario collettivo, il poveraccio, una volta in loro possesso, si troverà anche meno libero di prima. Non riuscirà a procurarsi i beni che gli interessano – un cappotto, una bottiglia di vino pregiato... – e dovrà accontentarsi dei surrogati che i suoi occasionali benefattori considerano più adatti a lui. Così il suo tentativo di concedersi un pasto decente finirà ingloriosamente con l'offerta di alcuni panini quasi scaduti e delle relative salsine (che non gli piacciono), quello di acquistare una bottiglia di Barbaresco di annata sarà frustrato dall'elargizione, a titolo di elemosina, di un rosatello qualsiasi e così via. Perché il nostro precario internazionale permanente non incontra solo, nei suoi vagabondaggi milanesi, i classici leghisti ostili: non mancano, in città, personaggi più o meno probi ansiosi di alleviare le pene dei diseredati... ma tutti sono convinti di sapere meglio di loro quello che effettivamente gli serve. Il prezzo che esigono dai loro beneficati in cambio dell'aiuto che sono disposti a prestargli è una rinuncia, forse definitiva, alla propria libertà.

    Non vi racconterò, naturalmente, come va a finire la storia: vi toglierei il piacere di scoprirlo per conto vostro (il racconto si intitola Piove sempre sul bagnato ed è stato pubblicato da poco in volume dall'editore Coniglio). Mascitelli scrive in modo delizioso e il suo apologo è molto divertente. Ma vi accorgerete anche che si tratta di una lettura un filino inquietante. Sappiamo tutti che non è necessario essere un senzatetto ucraino ospite della Stazione Centrale per avere dei problemi di consumi, che, anzi, il numero di quelli che, come si dice pudicamente, “non ce la fanno” cresce di giorno in giorno e se ne trovano sempre di più tra quanti un tetto ce l'hanno e sono originari di questo paese da molteplici generazioni. Sappiamo anche che non è il caso di sperare più che tanto nella comparsa di un deus ex machina in cappotto di cammello con una adeguata provvista di biglietti di cinquecento: sono cose che succedono solo ogni tanto e solo nei racconti.
    In compenso, le probabilità che qualcuno si senta autorizzato a prendere per noi tutte le decisioni che ci riguardano, e che ci consideri dei riottosi nel caso che ci rifiutiamo sono sempre più alte. Non per niente, di fronte alla crisi incombente, i vari governi – e il nostro più di altri – scelgono quasi d'istinto la via dell'aiuto mediante elargizione e scartano automaticamente quei provvedimenti, tipo la difesa e l'incremento dei posti di lavoro, che permetterebbero alla gente di prendere in proprio le decisioni che la riguardano. Quella della elargizione è una classica risposta populista e se la si può verniciare di modernità elettronica, come nel caso della social card, tanto meglio. Le social cards, anzi hanno il vantaggio aggiuntivo (dal punto d vista di chi le emette) che spesso, per un motivo “tecnico” o l'altro, non funzionano e non ci si può comprare niente. Proprio come non si può comperare niente con un biglietto da cinquecento euro se si è un barbone.

    18.01.'09