A dirlo oggi può sembrare incredibile,
ma tanti anni fa, il 23 maggio del 1972, capitò che ingenti forze dei carabinieri
perquisissero, qui a Milano, la sede del “Corriere della Sera”, in via
Solferino. Agivano, se ben ricordo, in base al mandato di un giudice
che lamentava la classica violazione del segreto istruttorio, ma tutti
sapevano che ciò cui miravano soprattutto le forze dell’ordine era qualcosa
che provasse l’esistenza di un rapporto, diciamo così, di protezione tra
la più nota esponente della famiglia che allora possedeva il “Corriere”
(non era, sia detto per i giovani e gli smemorati, la famiglia Agnelli,
cui certo un simile trattamento non sarebbe stato inflitto) e alcuni noti
eversivi, primo tra i quali il celebre Mario Capanna, terrore – all’epoca
– dei milanesi dabbene. Non trovarono niente, ma tant’è.
Storie
vecchie, direte voi. Sì, infatti, e non mi sarei certo sognato di
ricordarvele, se non mi fosse venuto in mente il commento che all’episodio
dedicò, il giorno dopo, “Lotta Continua”, che allora era un quotidiano
dispettoso e irrispettoso, che in nulla lasciava presagire il malinconico
perbenismo di guerra verso cui sarebbero evoluti, con gli anni, i padri
fondatori dell’omonimo gruppo. Un qualche redattore di “Lotta Continua”,
dunque, decise di dare la notizia della perquisizione al “Corriere” così
come l’avrebbe data il “Corriere” stesso. Scrisse, così (devo
citare a memoria, ma credo di essere abbastanza preciso), che i bravi militi
avevano scoperto, al primo piano dell’edificio di via Solferino, dei banconi
tipografici su cui era impaginato “un vero e proprio giornale”, mentre
i locali degli altri piani erano “adibiti ad uffici”. Sulle scrivanie
di quegli uffici, osservò, erano rinvenibili numerosi cilindretti di grafite,
abilmente celati dentro certi bastoncini di legno. Aggiunse la preziosa
informazione per cui negli annessi magazzini si trovavano ingenti quantità
di carta, facendo notare, a margine, che nelle città italiane, nei mesi
precedenti, erano esplose, appunto, parecchie “bombe carta”. E
concluse assicurando, su accorata testimonianza dei vicini, che in quei
locali c’era un continuo andare e venire di gente, anche a tarda notte.
All’epoca
mi parve un commento spiritosissimo: un modo perfetto di demistificare
la tecnica giornalistica di deformare la verità senza dire vere e proprie
bugie. Non avevo pensato, nella mia ingenuità, che in Italia è sempre
meglio non fare troppo gli spiritosi, perché c’è sempre il rischio che
qualcuno ti prenda sul serio. In effetti, quella tecnica informativa
sarebbe stata impiegata, nei decenni successivi, con assoluta serietà,
senza alcuna intenzione di fare dello spirito o della parodia. E
la si usa ancora adesso. Proprio quel vecchio episodio mi è tornato
in mente giorni fa, quando ho appreso, da un telegiornale della sera (doveva
essere il TG2 di martedì scorso) che la polizia, in un “covo anarchico”
bolognese, aveva trovato “liquidi infiammabili e materiale interessante”.
Una formulazione in cui, prescindendo dall’opportunità di definire
un “covo” quella che era, come si sarebbe appreso il giorno dopo, la
sede di un circolo culturale regolarmente concessa in affitto dal Comune
di Bologna (che infatti, subito dopo, ne avrebbe estromesso gli inquilini),
non si può non notare il contrasto tra quanto è fatto supporre e quanto
viene effettivamente riferito. In effetti, è difficile che
nella casa di chiunque, me e voi compresi, non si trovino, a cercarli,
liquidi infiammabili e materiale interessante. A casa mia, per esempio,
non mancano né l’alcol denaturato né la trielina e di libri interessanti
ce ne sono parecchi. Qualcuno – vi confesserò sottovoce – ha persino
a vedere con la storia e il patrimonio teorico dell’anarchismo.
Ma
non scherziamo troppo. L’elemento davvero preoccupante, in tutto
ciò, era ed è il fatto che quella non notizia fosse inserita nel contesto
giornalistico riguardante le indagini sull’omicidio del professor D’Antona.
La sede bolognese, a quanto era dato capire, non era stata perquisita
nel corso di qualche inchiesta sulla specifica attività dei suoi occupanti,
ma alla ricerca di collegamenti dei medesimi con le tragicamente rinate
Brigate Rosse. E se di collegamenti, evidentemente, non ne aveva
trovati nessuno, l’allusione al “materiale interessante” (seconda una
formula che doveva essere di provenienza ufficiale, perché poi l’hanno
ripresa tutti i giornali) serviva, con altrettanta evidenza, a far supporre
il contrario.
Vi
dirò una cosa. A essere proprio sinceri, di quell’orrendo episodio
avrei proprio preferito non parlarvi. Non perché non ritenga che
quello del terrorismo sia un problema grave, sul cui significato è necessario
discutere (soprattutto in questi giorni, quando esso sembra ripresentarsi
in un paese e in una società coinvolti in quella specie di terrorismo internazionale
che, in sostanza, è la guerra). Il fatto è che mi sembra che non
ci sia, in giro, molta voglia di discuterne. Pensate alla banalità
dei commenti che si sono sentiti, o alla meschinità di quelle forze politiche
non hanno rinunciato all’oscura tentazione di servirsi della ricomparsa
delle BR per scaricare montagne di accuse pretestuose sui concorrenti più
prossimi. Ma forse su quelle banalità, su quelle tentazioni è proprio
il caso di non transigere. Rappresentano un atteggiamento che fa
il paio con la volontà, sempre riemergente, di approfittare dell’emergenza
terrorismo per regolare i conti con le forme più fastidiose di dissenso.
Guardate
che non mi riferisco necessariamente agli anarchici. Gli anarchici,
in casi come questi, sono soltanto un bersaglio tradizionale. La
reazione di chi, di fronte a emergenze del genere, ricorre al confortante
cliché dell’eversione anarchica è praticamente un riflesso condizionato.
È vero che nella storia dell’anarchismo, comunque la si giudichi,
c’è una lunga tradizione, se non di terrorismo, di “gesti esemplari”
(chiamiamoli pure omicidi politici, perché le loro vittime, oltre che re,
imperatrici e capi di stato, erano comunque degli uomini o delle donne),
ma ormai è una tradizione lontana che nessuno si sognerebbe di fare rivivere:
roba, in sostanza, da libri di storia. E poi, l’ipotesi di un gesto
esemplare rivendicato in nome di una dottrina e di una organizzazione che
non è la propria è davvero un po’ troppo azzardata, persino per i nostri
inquirenti. Ma diciamo che la perquisizione delle sedi anarchiche
ha un valore soprattutto simbolico: suona un po’ come un grido di guerra,
come il gesto di chi si rimbocca le maniche e si sputa sulle mani. Poi,
si capisce, verrà il resto.
Il resto, in effetti, comincia a venire.
Il sindaco Albertini si è affrettato a scoprire una cellula eversiva
tra quei lavoratori comunali con cui è da sempre in lotta perenne. La
volontà di trascinare sotto accusa i centri sociali appare, in certi esponenti
della burocrazia politico poliziesca, incontenibile. E se l’unico
che ha avuto il coraggio di stabilire esplicitamente un collegamento tra
azioni terroriste e movimento contro la guerra (movimento che rappresenta,
oggi come oggi, una delle poche forme di dissenso visibile) è stato il
generale Clark, il suo appello non è caduto invano. Tre giorni fa, per
dirne una, nel quadro – appunto – delle indagini sul terrorismo, i carabinieri
di Legnago, in provincia di Verona, hanno “assunto informazioni”, come
si dice, su chi avesse aderito allo sciopero dei Cobas scuola contro la
guerra. E visto che la guerra, notoriamente, continua sarà il caso
di prestare a episodietti del genere un’attenzione maggiore di quella
che gli è stata riservata finora. Altrimenti c’è il rischio che
la prossima volta che qualcuno deciderà di perquisire la sede di un quotidiano
o di un altro organo d’informazione, non si riesca neanche a trovare uno
straccio di sede per scherzarci sopra.
30.05.’99