Quali doti si possono e devono richiedere a un futuro
papa? Zelo pastorale? Fervore evangelico? La capacità
di infondere nella Chiesa lo spirito necessario per reagire alle sfide
del terzo millennio? Oppure, tenendoci più terra terra, quella di
mediare, con sagacia di politico e paterna sollecitudine, tra le mille
istanze che quella organizzazione non può che esprimere? Di tutto
questo e di altro, probabilmente, il candidato ha bisogno, a sgomento degli
elettori che stanno per riunirsi in conclave. È un algoritmo complicato
quello che devono comporre quei poveri porporati, specialmente se si considera
il fatto che non condividono al cento per cento le stesse priorità di valori.
E se è vero che tutti possono trarre conforto, nel momento difficile,
dalla fiducia nello Spirito Santo, sanno anche assai bene che l’Onnipotente
agisce, in questo basso mondo, solo per causas secundas e che la Sua supervisione
non esime nessuno, cardinali compresi, delle proprie personali responsabilità.
Su una cosa, però,
sono quasi tutti d’accordo, almeno stando alle indiscrezioni dei vaticanisti.
Il futuro pontefice, ci hanno spiegato, dovrà sapere le lingue. Potrà
essere, a seconda di come andranno le cose, conservatore o progressista,
paolino o giovanneo, gesuita o salesiano, figlio dell’Europa o del Terzo
Mondo, ma nessun candidato che non sappia esprimersi disinvoltura in uno
o più idiomi che non siano il suo ha qualche seria possibilità di arrivare
sul Soglio di Pietro. Di fatto, qualche aspirante che sembrava piazzato
piuttosto bene è già stato messo da parte per via delle sue deficienze
linguistiche.
Visto che lo hanno
ripetuto in tanti, sarà vero. Ma è curioso, a pensarci. Che
sapere le lingue sia indispensabile per fare carriera è un luogo comune
della cultura corrente, come ben sanno le famiglie che devono sottostare
a esosissimi esborsi per spedire il figlio liceale a Barnemouth o a Torquay
o dovunque si organizzino degli inutili corsi estivi di inglese, ma sembra
strano che il principio si applichi automaticamente ai dignitari ecclesiastici.
La loro, in senso stretto, non è una carriera e le doti che richiede,
comunque, dovrebbero essere altre. E poi sono tali e tante le cause
che rendono difficile il comunicare in lingua straniera a degli individui
anche dottissimi e ben preparati sul piano linguistico, che sembra
ingiusto farne una discriminante: l’unica, per di più, che finora sia
stata espressamente avanzata.
Il papa, in ultima analisi, è un vescovo e dei vescovi
la dottrina afferma espressamente che, pur essendo i successori degli apostoli,
non ne ereditano il dono delle lingue. Devono, quindi, studiarsele.
Ma c’è modo e modo, ovviamente: gli immediati predecessori di Karol
Wojtyla venivano dalla carriera diplomatica e padroneggiavano, quindi,
l’algido francese in uso nelle cancellerie, ma nessuno di loro era un
vero e proprio poliglotta e, tra i pontefici del secolo scorso ce n’è
stato almeno uno che, quanto a lingue vive, non andava oltre l’italiano.
E il bello è che costui, papa Pio X, al secolo Giuseppe Sarto, nel
conclave in cui fu eletto (quello del 1903, sulle cui vicissitudini siamo
particolarmente informati, perché parecchi protagonisti ne riferirono in
varia sede e ne fu tratto persino un film), cercò di rifiutare la nomina
protestando proprio la sua ignoranza in merito, ma gli risposero che il
latino bastava e avanzava e lo elessero lo stesso, il che, considerando
il fatto che sarebbe stato il papa della reazione antimodernista non fu
forse una gran idea, ma sono cose che capitano.
Nel XXI secolo la
situazione, naturalmente, è diversa. Nel 1903 la chiesa aveva una
sua lingua ufficiale, appunto il latino, la impiegava in ogni occasione
pubblica e tutti gli aspiranti sacerdoti dovevano studiarsela al seminario,
se no all’ordinazione non ci arrivavano di certo. Problemi di comunicazione
di massa se ne ponevano pochi: il messaggio pastorale filtrava in lingua
latina dalla Curia in giù, finché non giungeva al livello in cui poteva
essere comunicato ai fedeli in volgare. Posto al culmine di quella
sorta di piramide sacrale e linguistica, il pontefice era, a tutti gli
effetti, una figura remota, che, nella sua diocesi (e non altrove) i fedeli
potevano forse intravedere ogni tanto, da lontano, ma la cui voce udivano
risuonare soltanto nelle occasioni liturgiche solenni. Oggi, si sa,
il papa è uno dei divi del grande circo mediatico, la sua figura, via etere,
è sotto gli occhi di tutti ed è naturale che lo si voglia anche sentire
parlare. Questo significa, naturalmente, sottolineare il suo ruolo
e la sua figura a spese della comunità e della struttura di cui fa parte,
appiattire su una figura carismatica la complessa realtà del cattolicesimo
organizzato, innestare un processo che sa un poco di idolatria e molto
di culto della personalità, ma così, in ogni campo, va il mondo. Alle
masse, si accalchino personalmente ai suoi piedi o siano radunate davanti
al teleschermo, il papa deve potersi rivolgere direttamente.
Sì, ma in che lingua?
Il problema è meno futile di quanto non paia. Di masse al mondo
ce ne sono tante e si esprimono nei modi più disparati. Le lingue
più parlate su questa terra sono, nell’ordine, il cinese, l’hindi e il
bengali, ma non credo che il papa debba preoccuparsi di una competenza
in tal senso. L’unico idioma a vasta diffusione che riguardi delle
comunità di tradizioni cattoliche è lo spagnolo, ma non mi risulta che
i candidati più accreditati siano ispanisti di vaglia. Di cardinali
che sappiano il russo non devono essercene molti, e in ogni caso quell’area
linguistica è ben presidiata dalla concorrenza, nel senso che il Patriarcato
di Mosca sta ben attento a impedire infiltrazioni papiste in casa sua.
Le lingue dell’Europa occidentale nei paesi di origine contano solo
poche centinaia di milioni di parlanti, in gran parte non cattolici e se
apparentemente sono diffuse anche nel Terzo Mondo (in Africa, per esempio,
hanno un ruolo ufficiale quasi dovunque), di solito vi rappresentano solo
un esile superstrato a uso delle classi dirigenti locali. E così
via.
In definitiva, la
lingua straniera che un candidato serio non può permettersi di ignorare
(oltre, forse, all’italiano nel caso dei non italiani) resta l’inglese.
E si capisce: è la lingua della politica, della diplomazia, delle
comunicazioni di massa, dei rapporti internazionali. La Chiesa è
un’organizzazione mondiale, il suo capo deve potersi rivolgere da pari
a pari ai grandi del mondo e i suoi membri, al vertice o alla base, in
qualche modo devono pur comunicare tra loro. Il fatto che l’inglese,
oggi, non sia esattamente retaggio delle masse diseredate, ma piuttosto
l’espressione linguistica dei loro nemici, che la sue fortune siano così
strettamente legate a quelle della sola potenza imperiale, non esime dalla
necessità di sapersene servire
Ma visto che dimmi
con chi parli e ti dirò chi sei, forse l’aver abbandonato il latino non
è stata una mossa troppo giudiziosa.
17.04.’05