Di un autore che giunge in libreria
quando è ancora in età scolare è difficile parlare come se fosse uno scrittore
qualsiasi, soprattutto se il genere prescelto e l’impostazione della scrittura
ci portano, diciamo così, ben lontani dal mondo di una Minou Drouette.
Oltretutto è abbastanza ovvio che gli editori, pubblicando questo
Lingue morte di Davide Garbero, diciottenne di belle speranze residente
in Fossano, Cuneo, dove frequenta – mi sembra – l’ultimo anno dell’ITIS,
intendano giocare quanto più si può sul caso letterario, mettendo nel debito
rilievo non soltanto l’età dell’autore, ma il fatto che i racconti che
compongono il volume siano stati, a suo tempo, rifiutati con sdegno dalla
rivista della scuola. E sfido io: si tratta di un esercizio così
evidentemente programmato e consapevole di scrittura violenta, di un esempio
di splatter tanto trucidamene esibito, che qualsiasi preside si sentirebbe
tenuto per dovere professionale a ritrarsene con orrore (almeno in provincia:
a Milano, dove la categoria è più scafata, ci sarebbe il rischio di veder
pubblicato il volume a spese della scuola). Per cui forse vale la
pena, una volta tanto, di prendere sul serio uno dei soliti insopportabili
giochi di parole di Andrea G. Pinketts, che osserva, nella breve prefazione,
come di un autore esordiente di solito o si gridi al miracolo o si dica,
paternalisticamente, che “si farà”, ma che questo esordiente sembra già
abbastanza fatto di suo. Sono, quelle che scrive, delle storie abbastanza
tremende di violenza familiare, o – più spesso – di fantasia criminale,
una sequela ininterrotta di eccessi in bilico tra delirio iperrealista
e fughe nel surrealismo spinto, in cui si ragiona soprattutto di abusi
corporali, schizzi di sangue (e altri fluidi), manipolazioni cadaveriche,
membra lacerate, piercing vaginali strappati e chi più ne ha più ne metta,
il tutto esibito con autentico entusiasmo e una volontà di presentarsi
come autore maudit che fa persino tenerezza. C’è dell’immaturità
in tutto questo? Be’, sì, in parte un po’ ce n’è, sarebbe futile
volerlo negare, nel senso che la violenza della nostra società non si limita
a questi aspetti, naturalmente, e il ragazzo a volte si limita a tirar
fuori tutto quello che ha dentro con un entusiasmo che, senza alcuna volontà
di offesa, si potrebbe definire masturbatorio e che ogni tanto suona
preletterario. D’altro canto, sarebbe ingiusto archiviare i suoi
racconti come un esempio di pura naïveté truculenta: si capisce che sulla
scrittura lui ha lavorato parecchio e che il mondo delle sue allucinazioni,
comunque, ha una sua autonomia, una paradossale realtà narrativa che vale
la pena esplorare. Tutti questo non basterà, forse, a farne, come
auspicano quei bravi giovani della Alacrán, un autore di riferimento generazionale,
ma è già un risultato notevole. Cosa volete che vi dica: per quello
che non è fatto, si farà sicuramente.
14.03.’06
Davide Garbero, Lingue morte, "Le Storie" – Alacrán, pp. 115, € 12,80