Libertà senza veli

La caccia | Trasmessa il: 11/07/1999





Non so se abbiate seguito, all’inizio della settimana passata, la dotta polemica che, dopo la manifestazione islamica di domenica scorsa a Torino, ha coinvolto un certo numero di intellettuali nostrani di ambo i sessi sull’importante tema del chador (o, come pare si debba meglio dire con l’originario termine arabo dell’hijab), quel velo senza il quale le donne musulmane di onesti costumi non possono apparire in pubblico e dietro cui, per estensione, vorrebbero celare i loro lineamenti anche nella fotografia che compare sui loro documenti d’identità.  E tutto perché Rossana Rossanda, in un momento di comprensibile esasperazione, ha buttato al vento le tradizionali cautele della correttezza politica per scrivere che, a suo avviso, quell’indumento esprime una volontà di discriminazione sessista, oltre che una bassa concezione del ruolo della donna nella società, per cui a una devota dell’islamismo desiderosa di indossarlo, in effigie o di persona, il consiglio migliore da dare sarebbe quello di pensare con la propria testa e non lasciarsi fregare.  Un ragionamento che a me sembra ineccepibile che, pure, non sembra aver raccolto troppi consensi.  In effetti, poveretta, gliene hanno dette di tutte.  Sul fronte femminile c’è stata chi, come Carmen Llera, ha invocato il rispetto della “volontà di scelta”; chi ha detto, con l’aria di aver scoperto chissà che, che il problema è un altro e chi, come quella nota vestale del laicismo libertario che è l’Emma Bonino, ha osservato che non è il caso di fare tanto chiasso per un foulard e che in fondo anche sua madre se ne mette uno quando va in chiesa.  Su quello maschile, si raccomanda l’intervento di Giuliano Zincone (è sul “Corriere della sera” del 2 novembre) per cui l’invito della Rossanda, pur giustificabile da un punto di vista laico, pecca sul piano della tolleranza (perché “spetta ai fedeli, e soltanto a loro, decidere di ribellarsi alle antiche regole”) e cela una certa qual propensione a negare l’identità altrui, una sottile “pretesa egemonica” tipica, peraltro, della sinistra nel suo complesso.  Come a dire che l’invito a pensare con la propria testa rappresenta una grave sopraffazione su chi, per un motivo o per l’altro, preferisce fa pensare la testa di qualcun altro.

      Non pretenderò certo di entrare in un dibattito tanto elevato.  Oltretutto, ho la vaga impressione che non sia possibile trovarvi una soluzione.  Dando per scontato (e a me sembra scontato) che il chador, l’hijab, il niqabm l’abejas e tutti i vari paludamenti sotto cui è costretta a celarsi la metà del cielo nel mondo islamico esprimano una concezione tipicamente sessista e proprietaria, tipica peraltro di tutta la cultura mediterranea, islamica, cristiana o pagana che sia, resta vero che possono essere vissuti dalle interessate in tutt’altro modo, per esempio come affermazione di un’identità di cui essere orgogliose.  Lo osservava, sul manifesto di ieri, anche Adriana Buffardi. Anche i simboli, come le parole, si possono sempre ricategorizzare e riciclare.  E in ogni caso ci saranno sempre degli esseri umani, uomini e donne, pronti, per motivi loro, ad accettare dei comportamenti che agli altri sembrano (e forse sono davvero) nocivi per chi li accetta.  In questo caso, che fai?  È l’eterno problema di tutti i proibizionismi: gli vieti di fare quello che vogliono, per il loro stesso bene, o dai fiducia alla loro libertà e alla ragionevolezza che ognuno – si spera – dovrebbe saper esprimere una volta libero di farlo?  Personalmente, lo sapete, io credo che valga sempre la pena di scommettere sulla libertà, ma so che la tendenza opposta, quella di vietare tutto quanto non si intende rendere strettamente obbligatorio, è storicamente vincente.  E non si può neanche dire che ciascuno faccia quello che vuole e se è un danno sono cavoli suoi, perché i danni che i singoli si autoinfliggono hanno sempre un costo sociale per tutti.

      Resta il fatto che nessun rispetto dell’identità altrui può impedire a chiunque di dare a chiunque altro, nei debiti modi, un sincero consiglio.  E che tutto questo discorso non ha niente – ripeto, niente – a che fare con il problema del diritto delle donne islamiche a farsi fotografare velate sui documenti di identità.

Mi spiego.  Se è vero, com’è vero, che chiunque voglia portare sempre il velo, fuorché nel seno della famiglia, deve essere libero di farlo, è ovvio che deve poterlo fare anche in effigie e non vedo proprio come glielo si possa impedire.  Ma non vedo neanche come questo ovvio diritto possa essere limitato alle donne di fede islamica.  I diritti, non si scappa, sono diritti e secondo quella teoria liberale che tanti, di questi giorni, non si stancano di citare sono individuali e universali.  Sarebbe ben strano, roba da far rigirare nella tomba le ossa di Montesquieu, se in una società liberale e democratica qualcuno avesse il diritto di fare qualcosa (mettersi il velo, o toglierselo, se preferisce) perché fa parte di un gruppo speciale, per sesso, religione, nazionalità o che altro.  Da che mondo è mondo, se un gruppo particolare rivendica un diritto e la comunità ritiene di doverglielo garantire, esso diritto va esteso a tutto il corpo sociale.  L’idea di libertà religiosa, nacque, nel secolo XVIII, per difendere le minoranze, ma non fu limitata alle minoranze.  Ci sarebbe mancato altro. E vorrei proprio vedere chi avrebbe il coraggio, una volta riconosciuto il diritto alle varie Fatima e Laila di esibire sul passaporto una foto velata, di negare a me e all’Accame, se lo desiderassimo, di fare altrettanto.  Che, siamo matti?

È anche vero, purtroppo, che coloro che hanno manifestato domenica scorsa a Torino non avevano, in grande maggioranza, la minima intenzione di rivendicare il diritto delle donne musulmane a mettersi liberamente il velo.  Erano, in gran parte, uomini musulmani e il diritto che rivendicavano era quello di poterglielo imporre, il che, ammetterete, fa una certa differenza.   Esattamente come quegli altri duecentomila integralisti che, in quasi contemporanea, manifestavano a Roma davanti al papa, non chiedevano che i giovani avessero la libertà di frequentare la scuola che preferissero, ma il potere di mandarli, a spese dello Stato, in quella che loro avevano deciso.   La libertà cui certa gente ambisce è quasi sempre quella di costringere gli altri a fare quello che vogliono loro.  In tema di libertà i laici e la sinistra hanno le loro brave contraddizioni, figurarsi, ma i clericali e la destra si dimenticano sempre di spiegare che nella libertà che invocano non è mai compresa quella altrui.


07.11.’99