“Se mio nonno avesse le ruote” si
diceva una volta “sarebbe un tramway”. Era una battuta, bonaria
e un po’ stupidotta, che si utilizzava per censurare quanti ricorrevano
a ipotesi troppo ardite o per rintuzzare chi faceva conto su eventi affatto
improbabili, ma io la ricordo soprattutto perché, quando insegnavo ai giovanetti
i misteri della sintassi latina, ero solito servirmene per prospettar loro
un esempio del cosiddetto “periodo ipotetico dell’impossibilità”. Non
so perché, ma invitate a tradurre quella frase le creature reagivano meglio
che se avessi loro proposto il classico “Se i Romani non fossero stati
protetti dagli dei non avrebbero conquistato il mondo”: ridacchiavano
un po’, scherzavano fra di loro su come rendere nella lingua di Tacito
l’espressione “tramway”, ma, pazientemente guidati, a un “Si avus meus
rotas haberet, currus pubblicus esset”, o qualcosa del genere, finivano
per arrivarci. E dato che in latino si tratta di un costrutto difficile,
la cui struttura logica contrasta con quella della maggior parte dei sintagmi
in uso in quella lingua, era già un risultato.
Altri
tempi. Oggi il periodo ipotetico dell’impossibilità è assunto al
ruolo di modello principe dell’argomentare politico. Se ne sono
ampiamente serviti, in questa settimana, tutti coloro (pochi, in realtà)
che hanno voluto difendere, nel primo anniversario, la decisione di portare
la pace e la fraternità nel Kosovo bombardando a tappeto la Serbia. Nessuno
di loro, naturalmente, poteva vantare qualche concreto risultato positivo,
visto che le sofferenze e gli orrori che la guerra ha indotto in quel paese
sono fin troppo evidenti, ma sono stati tutti fermissimi nel dichiarare
che se non si fosse intervenuti la situazione oggi sarebbe molto, ma molto
peggiore. È un tipico argomento a pera, perché è vero che al peggio
non c’è mai fine, ma nulla vieta di contrapporgli l’ipotesi opposta e
simmetrica per cui, se non si fosse intervenuti tutto sarebbe andato assai
meglio, ma tutti ci si sono attaccati con un’ostinazione degna di miglior
causa. L’hanno fatto, tra gli altri, l’ex segretario della NATO, Javier
Solana, che deve essere uno che ama spararle grosse, visto che ha anche
aggiunto che dal punto di vista interetnico Pristina è più sicura di Chicago
(e sfido, visto che, a differenza di Chicago, a Pristina di etnie ormai
ce n’è una sola), e un sottosegretario agli Esteri del nostro governo,
che ha scritto sul giornale del suo partito (quale sia, ovviamente, non
ve lo possiamo dire), un editoriale in cui dichiara che l’intervento ha,
sì, violato la legalità internazionale; che, certo, sono “saltati” i
due “obiettivi centrali” della multietnicità del Kosovo e dell’integrità
della Jugoslavia; che è stato – ammettiamolo – “un drammatico errore
politico” non contrastare l’Uck e che “la comunità internazionale”,
ahimè, “ha sbagliato nella scelta di sanzioni a oltranza contro la Serbia”,
ma che, comunque, quella “scelta dolorosa, ma inevitabile” non fu inutile,
perché se no chissà cosa sarebbe successo.
Noi, che sappiamo che cosa è successo
in quest’anno, facciamo un po’ di fatica a seguire questo modo di argomentare,
che, tra l’altro, formalizza il dibattito, riducendolo a un astratto contraddittorio
sull’intervenire o il non intervenire e rimuove, come d’uso, ogni riferimento
agli effetti concreti di quell’intervento, alle vite umane distrutte e
alle risorse dissipate in una terra che di risorse ne ha piuttosto poche.
Ma ciascuno usa gli argomenti che ha, nella fidente attesa che di
quella “scelta dolorosa, ma necessaria” si perda, poco per volta, il
ricordo. Che noi, per conto nostro, ci sforzeremo di preservare,
nella consapevolezza che se avessimo una classe dirigente più seria, meno
adusa alle futilità retoriche e meno adusa all’obbedienza cieca di fronte
alle imposizioni degli Stati Uniti, certe cose, forse, non accadrebbero.
Anche questa ipotesi, naturalmente, meriterebbe di esser presa in
considerazione.
26.03.’00