Le ruote del nonno

La caccia | Trasmessa il: 03/26/2000



“Se mio nonno avesse le ruote” si diceva una volta “sarebbe un tramway”.  Era una battuta, bonaria e un po’ stupidotta, che si utilizzava per censurare quanti ricorrevano a ipotesi troppo ardite o per rintuzzare chi faceva conto su eventi affatto improbabili, ma io la ricordo soprattutto perché, quando insegnavo ai giovanetti i misteri della sintassi latina, ero solito servirmene per prospettar loro un esempio del cosiddetto “periodo ipotetico dell’impossibilità”.  Non so perché, ma invitate a tradurre quella frase le creature reagivano meglio che se avessi loro proposto il classico “Se i Romani non fossero stati protetti dagli dei non avrebbero conquistato il mondo”: ridacchiavano un po’, scherzavano fra di loro su come rendere nella lingua di Tacito l’espressione “tramway”, ma, pazientemente guidati, a un “Si avus meus rotas haberet, currus pubblicus esset”, o qualcosa del genere, finivano per arrivarci.  E dato che in latino si tratta di un costrutto difficile, la cui struttura logica contrasta con quella della maggior parte dei sintagmi in uso in quella lingua, era già un risultato.
        Altri tempi.  Oggi il periodo ipotetico dell’impossibilità è assunto al ruolo di modello principe dell’argomentare politico.  Se ne sono ampiamente serviti, in questa settimana, tutti coloro (pochi, in realtà) che hanno voluto difendere, nel primo anniversario, la decisione di portare la pace e la fraternità nel Kosovo bombardando a tappeto la Serbia.  Nessuno di loro, naturalmente, poteva vantare qualche concreto risultato positivo, visto che le sofferenze e gli orrori che la guerra ha indotto in quel paese sono fin troppo evidenti, ma sono stati tutti fermissimi nel dichiarare che se non si fosse intervenuti la situazione oggi sarebbe molto, ma molto peggiore.   È un tipico argomento a pera, perché è vero che al peggio non c’è mai fine, ma nulla vieta di contrapporgli l’ipotesi opposta e simmetrica per cui, se non si fosse intervenuti tutto sarebbe andato assai meglio, ma tutti ci si sono attaccati con un’ostinazione degna di miglior causa. L’hanno fatto, tra gli altri, l’ex segretario della NATO, Javier Solana, che deve essere uno che ama spararle grosse, visto che ha anche aggiunto che dal punto di vista interetnico Pristina è più sicura di Chicago (e sfido, visto che, a differenza di Chicago, a Pristina di etnie ormai ce n’è una sola), e un sottosegretario agli Esteri del nostro governo, che ha scritto sul giornale del suo partito (quale sia, ovviamente, non ve lo possiamo dire), un editoriale in cui dichiara che l’intervento ha, sì, violato la legalità internazionale; che, certo, sono “saltati” i due “obiettivi centrali” della multietnicità del Kosovo e dell’integrità della Jugoslavia; che è stato – ammettiamolo – “un drammatico errore politico” non contrastare l’Uck e che “la comunità internazionale”, ahimè, “ha sbagliato nella scelta di sanzioni a oltranza contro la Serbia”, ma che, comunque, quella “scelta dolorosa, ma inevitabile” non fu inutile, perché se no chissà cosa sarebbe successo.
Noi, che sappiamo che cosa è successo in quest’anno, facciamo un po’ di fatica a seguire questo modo di argomentare, che, tra l’altro, formalizza il dibattito, riducendolo a un astratto contraddittorio sull’intervenire o il non intervenire e rimuove, come d’uso, ogni riferimento agli effetti concreti di quell’intervento, alle vite umane distrutte e alle risorse dissipate in una terra che di risorse ne ha piuttosto poche.   Ma ciascuno usa gli argomenti che ha, nella fidente attesa che di quella “scelta dolorosa, ma necessaria” si perda, poco per volta, il ricordo.  Che noi, per conto nostro, ci sforzeremo di preservare, nella consapevolezza che se avessimo una classe dirigente più seria, meno adusa alle futilità retoriche e meno adusa all’obbedienza cieca di fronte alle imposizioni degli Stati Uniti, certe cose, forse, non accadrebbero.  Anche questa ipotesi, naturalmente, meriterebbe di esser presa in considerazione.
26.03.’00