Non mi sembra che qualcuno lo abbia
notato, ma il voto di mercoledì scorso, con cui il Senato e la Camera dei
deputati hanno approvato a schiacciante maggioranza l’intervento in guerra,
è stato il primo voto di questo genere espresso da un parlamento italiano.
Lo Statuto albertino, che ha disciplinato la materia per gran parte
della nostra storia unitaria, riservava qualsiasi decisione in merito al
Re e ai suoi ministri, imponendogli, all’articolo 5, il solo obbligo di
darne notizia alle Camere “tosto che l‘interesse e la sicurezza dello
Stato il permettano” e non mi risulta che questa condizione, nell’arco
di tempo che va dal 1860 al 1946, si sia mai verificata. Gli interventi
nella guerra del Golfo e in Kosovo non richiedevano una delibera vera e
propria, perché si inquadravano in un sistema già dato di alleanze ed erano
posti, formalmente, sotto l’egida ONU. Abbiamo dovuto aspettare
l’alba del XXI secolo perché i rappresentanti del popolo italiano si prendessero
la soddisfazione di decidere l’invio delle truppe contro qualcuno, anche
se, non vigendo uno stato di guerra dichiarata, non hanno potuto precisare
contro chi.
Lo hanno fatto, comunque, nel modo peggiore.
Non è certo il caso di credere a quanti hanno parlato di “giorno
solenne”, di “passaggio storico”, o, peggio, di “una prova di maturità
e intelligenza politica” e di “devozione all’interesse nazionale”.
La decisione sarà stata anche storica, ma era stata già presa altrove
e nessuno, degli intervenuti aveva alcuna possibilità di contestarla.
Il problema, per le forze politiche presenti in Parlamento, era soprattutto
quello di ostentare, in qualche modo, una propria identità nel momento
in cui decidevano di confondersi in una manifestazione comune di assenso.
Onde la trovata di votare su due mozioni diverse, ma unificate da
un identico “dispositivo”, in cui si approvavano “le comunicazioni rese
in data odierna dal governo sull’evoluzione della crisi internazionale
conseguente agli attentati terroristici dell’11 settembre in danno degli
Stati Uniti d’America e le iniziative che da essi esplicitamente conseguono
per il ripristino della legalità internazionale.” Una formula sibillina
e abbastanza ipocrita, che fa di una decisione liberamente presa la conseguenza
obbligata di un’azione altrui. Come se il problema non fosse quello
di come rispondere agli attentati, ma soltanto quello se rispondere o no.
Entrambi gli schieramenti, in definitiva, hanno dato per scontato
il principio per cui a quelle azioni si poteva reagire esclusivamente con
la guerra. È la stessa logica in base alla quale è stato possibile
accusare d’intelligenza con il nemico i sessantasette tra deputati e senatori
che hanno votato contro.
I quali, anche a prescindere dalle motivazioni
di singoli e gruppi, hanno, se non altro, risparmiato al Parlamento l’ignominia
della unanimità. L’unanimità, checché possano pensarne i capoccia
del governo e dell’opposizione, non è un valore democratico e non garantisce
mai nulla, se non forse la volontà di non tener conto delle diverse opzioni
presenti nel corpo sociale. Sulle decisioni importanti, in democrazia,
ci si divide. In caso contrario, è probabile che la scelta sia stata,
in un modo o nell’altro, obbligata.
Ma quando si dà la parola alle armi,
naturalmente, si finisce con lo scoprire che gran parte delle scelte sono
obbligate. E la larghissima maggioranza del voto di mercoledì scorso
ci insegna che, comunque andranno a finire le cose, la guerra ha già cominciato
a produrre i suoi danni.
11.11.’01