Le iniziative che esplicitamente conseguono

La caccia | Trasmessa il: 11/11/2001



Non mi sembra che qualcuno lo abbia notato, ma il voto di mercoledì scorso, con cui il Senato e la Camera dei deputati hanno approvato a schiacciante maggioranza l’intervento in guerra, è stato il primo voto di questo genere espresso da un parlamento italiano.  Lo Statuto albertino, che ha disciplinato la materia per gran parte della nostra storia unitaria, riservava qualsiasi decisione in merito al Re e ai suoi ministri, imponendogli, all’articolo 5, il solo obbligo di darne notizia alle Camere “tosto che l‘interesse e la sicurezza dello Stato il permettano” e non mi risulta che questa condizione, nell’arco di tempo che va dal 1860 al 1946, si sia mai verificata.  Gli interventi nella guerra del Golfo e in Kosovo non richiedevano una delibera vera e propria, perché si inquadravano in un sistema già dato di alleanze ed erano posti, formalmente, sotto l’egida ONU.  Abbiamo dovuto aspettare l’alba del XXI secolo perché i rappresentanti del popolo italiano si prendessero la soddisfazione di decidere l’invio delle truppe contro qualcuno, anche se, non vigendo uno stato di guerra dichiarata, non hanno potuto precisare contro chi.  
Lo hanno fatto, comunque, nel modo peggiore.  Non è certo il caso di credere a quanti hanno parlato di “giorno solenne”, di “passaggio storico”, o, peggio, di “una prova di maturità e intelligenza politica” e di “devozione all’interesse  nazionale”.  La decisione sarà stata anche storica, ma era stata già presa altrove e nessuno, degli intervenuti aveva alcuna possibilità di contestarla.   Il problema, per le forze politiche presenti in Parlamento, era soprattutto quello di ostentare, in qualche modo, una propria identità nel momento in cui decidevano di confondersi in una manifestazione comune di assenso.  Onde la trovata di votare su due mozioni diverse, ma unificate da un identico “dispositivo”, in cui si approvavano “le comunicazioni rese in data odierna dal governo sull’evoluzione della crisi internazionale conseguente agli attentati terroristici dell’11 settembre in danno degli Stati Uniti d’America e le iniziative che da essi esplicitamente conseguono per il ripristino della legalità internazionale.”  Una formula sibillina e abbastanza ipocrita, che fa di una decisione liberamente presa la conseguenza obbligata di un’azione altrui.  Come se il problema non fosse quello di come rispondere agli attentati, ma soltanto quello se rispondere o no.  Entrambi gli schieramenti, in definitiva, hanno dato per scontato il principio per cui a quelle azioni si poteva reagire esclusivamente con la guerra.  È la stessa logica in base alla quale è stato possibile accusare d’intelligenza con il nemico i sessantasette tra deputati e senatori che hanno votato contro.
I quali, anche a prescindere dalle motivazioni di singoli e gruppi, hanno, se non altro, risparmiato al Parlamento l’ignominia della unanimità.  L’unanimità, checché possano pensarne i capoccia del governo e dell’opposizione, non è un valore democratico e non garantisce mai nulla, se non forse la volontà di non tener conto delle diverse opzioni presenti nel corpo sociale.  Sulle decisioni importanti, in democrazia, ci si divide.   In caso contrario, è probabile che la scelta sia stata, in un modo o nell’altro, obbligata.
Ma quando si dà la parola alle armi, naturalmente, si finisce con lo scoprire che gran parte delle scelte sono obbligate.  E la larghissima maggioranza del voto di mercoledì scorso ci insegna che, comunque andranno a finire le cose, la guerra ha già cominciato a produrre i suoi danni.

11.11.’01