Le ali dorate

La caccia | Trasmessa il: 03/13/2011


    Non ho mai capito perché la Lega abbia scelto come inno della costituenda Padania proprio il coro del Nabucco di Verdi. Forse perché piaceva a Bossi. Il che, naturalmente, sarebbe testimonierebbe soprattutto a favore del suo gusto musicale: non c'è altro inno o brano corale, nel repertorio italiano dell'Otto e Novecentesco, il cui effetto emotivo possa essere paragonato a quello del celebre canto dei prigionieri ebrei sulle rive del Tigri. Ma a parte questo, è pur vero che quella composizione, tanto dal punto di vista delle parole quanto da quello della situazione drammatica, non c'entra assolutamente una mazza con la Lega e i suoi ideali. Non ha proprio niente a che fare, neanche in senso traslato, con la Lombardia, l'Italia settentrionale o il federalismo. Il suo pathos esprime, com'è noto, l'accorato rimpianto per una patria da cui si è stati allontanati a forza e i lombardi, che io sappia, pur gemendo sotto il giogo di Roma ladrona, non sono stati ancora deportati in terra straniera. Insegna a cercare conforto nel ricordo di una passata felicità, che non è propriamente l'atteggiamento di una organizzazione protesa al futuro e non priva di ambizioni di governo. Lungi dal ripromettersi restaurazione e rivincita, chiede all'Onnipotente di ispirare ai “fatidici vati”, come il librettista definisce profeti e salmisti, “un concento che ne infonda al patire virtù”, che aiuti le vittime – cioè – a sopportare in santa pazienza la malasorte. Tutto il contrario, in sostanza, dell'atteggiamento tipico dalle pugnaci ronde pagane.
    In realtà, il “Va pensiero” è generalmente considerato un inno patriottico o addirittura irredentista (lo ha definito così anche Gad Lerner, in polemica con la Lega nella sua trasmissione di lunedì scorso), ma storicamente il concetto non regge. Il Nabucco è del 1842, epoca in cui Verdi, fedele suddito della duchessa di Parma, poco aveva a che fare con la causa risorgimentale e si occupava soprattutto del faticoso decollo della propria carriera. La trama si ispira – forse – al vago neoguelfismo del povero Temistocle Solera, l'autore del libretto, ma evidentemente al compositore interessano assai di più i problemi di Nabuccodonosor e Abigaille e la storia, del resto, del resto, era tratta da un dramma francese di Auguste Anicet Bourgeois e Francis Cormu. Per l'artista, il successo, quando venne, non fu affatto connotato in senso nazionalista, italiano o padano che fosse: non per niente il Giusti, in Sant'Ambrogio, che è del 1845, racconta di aver sentito cantare un suo pezzo dal coro delle truppe austriache di occupazione. Negli anni della rivoluzione e delle congiure, dal '48 al '61, i patrioti avranno anche usato il suo nome come acronimo di “Viva Vittorio Emanuele Re d'Italia” – cosa di cui qualche storico si permette di dubitare – ma lui metteva in scena soprattutto i casi, affatto privati, di Rigoletto (1851), di Alfredo e Violetta (1853), di Manrico e Azucena (sempre nel 1853). Sarà stato certamente favorevole all'unità nazionale (si lasciò eleggere deputato nel '61 e accettò la nomina a senatore nel '73), ma soprattutto perché faceva il musicista (un campo nel quale l'Italia era già unificata da un pezzo) e per lui il pubblico di Napoli e di Palermo non era meno importante di quello di Milano e Venezia. Quanto alla Padania, figuriamoci se quello che fu uno dei pochi intellettuali italiani di dimensione davvero europea, uno che si muoveva senza problemi dalle scene di Parigi a quelle di Londra e San Pietroburgo (per non dire del Cairo...), si poteva preoccupare della dimensione locale.
    E allora? Allora niente. I valori, come è ben noto, non stanno nelle cose ma in chi ce li mette e nulla viete di ricategorizzare un canto di rimpianto e consolazione come un inno patriottico identitario, in senso vuoi unitario vuoi secessionista. Tanto le parole nel cantato non si afferrano bene, quando si afferrano non sempre le si capiscono e quando le si capiscono si può sempre far finta che significhino qualcosa d'altro. Le ali dorate su cui vola il pensiero gli permettono di posarsi su qualsiasi cosa voglia chi pensa. O, meglio, su qualsiasi cosa che chi pensa sia stato persuaso a volere, perché il processo è collettivo e naturalmente vi partecipano dei soggetti dotati di livelli d'influenza diversi.
    Questo vuol dire che se uno, che Dio lo perdoni, si fida di Bossi, Maroni e Calderoli e loro gli assicurano che il “Va pensiero” esprime gli ideali del federalismo fiscale e la riluttanza ad ammettere gli extracomunitari nel proprio territorio, lo canterà o ascolterà dandogli quel significato e contento lui contenti tutti. Tuttavia fa un certo effetto (comico) vedere nelle loro cerimonie e nelle trasmissioni televisive quei bietoloni che cantano o ascoltano tutti impalati quelle parole improprie tenendo rigorosamente la mano sul cuore. È vero che la mano sul cuore è un vecchio espediente della mimica melodrammatica e fa un po' ridere anche se ce la tiene chi è alle prese con l'inno di Mameli, ma nel caso loro è anche una manifestazione di crassa ignoranza e accorgersene fa sempre piacere.
13.03.'11