L'apostolo della birra

La caccia | Trasmessa il: 03/13/2011


    “Buddismo e birra: un inedito Mazzini”: lo strillo, in prima pagina sul “Corriere” di giovedì 10, è stuzzicante e dà l'impressione, specie se letto, come spesso succede di prima mattina, con gli occhi offuscati dal sonno, che nell'interno sia pubblicato uno scritto finora ignoto del Maestro risorgimentale in cui si prendono in considerazione entrambi gli eterogenei soggetti. Che sarebbe certo un po' strano, perché, a parte il fatto che ai seguaci del primo è precluso il consumo della seconda, non sembra che tra le dottrine del principe Siddharta e la bionda bevanda aromatizzata col luppolo si possano rinvenire particolare rapporti. Ma non si sa mai e il lettore si affretta a pagina 32, per raccogliere informazioni maggiori.
    La delusione è inevitabile. Giuseppe Mazzini si occupò, sì, di buddismo e di birra, ma non contemporaneamente e non sullo stesso piano, nel senso che l'uno gli interessava come soggetto di studio e l'altra, più semplicemente, la beveva. Lo si apprende, con abbondanza di particolari, dall'epistolario intercorso tra il 1831 e il 1847 tra il rivoluzionario italiano e una sua ammiratrice londinese, Katherine Hill, epistolario i cui oltre quattrocento originali sono giunti, per un atto di liberalità di una discendente della Hill, in possesso dello stato italiano e saranno custoditi d'ora in poi presso la Domus Mazziniana di Pisa.
    In quelle lettere, in realtà, si parla soprattutto di libri. La Hill era responsabile per la letteratura straniera presso una importante biblioteca privata di Londra e il Maestro si rivolgeva a lei soprattutto per approvvigionarsi di materiale di lettura. In quel campo, si scopre, era uomo dai gusti raffinati e un po' eclettici: amava Dumas ed Emily Brontë, non trascurava Heine, Lamennais e John Ruskin e si interessava anche di cose orientali, visto che nel 1867 sollecita l'invio di un saggio sul buddismo e quello di un “tomo di letteratura sanscrita”. Non è moltissimo, ma quanto basta a rivelare un'apertura intellettuale che i biografi, di solito, tendono a non riconoscergli.
    Quanto alla birra, che ne bevesse lo si poteva supporre anche prima di conoscere quelle carte. Il Mazzini non condivideva l'ascetismo del suo ex discepolo Garibaldi, che beveva solo acqua, e non aveva i mezzi del conte di Cavour, che produceva direttamente il barolo nelle proprie tenute. Per di più, visse quasi sempre in esilio, prima a Ginevra e poi a Londra, in due città – cioè – in cui il vino era raro e costoso e la birra scorreva a fiumi. A Londra, tuttavia, non frequentava i pub (un ambiente in cui è davvero un po' difficile immaginarlo): si faceva piuttosto mandare a casa la versione in bottiglia. E prediligeva quella prodotta dalla Swan Brewery di Fulham, un birrificio di proprietà di tale James Stanfeld, di cui era amico personale. In effetti, assicura alla sua corrispondente, quell'azienda “ora gestisce anche un servizio di vendita privata, al dettaglio, che soddisfa qualsiasi tipo di ordine, con consegna a domicilio a prescindere dall'importo … La loro “bitter ale” è la migliore di Londra. Tutto il resto è, a essere gentile, eaux vannes” (che sembra voglia dire “scolo di fogna”). Di seguito, il Maestro ribadisce che a bere nei pub si corre il rischio di essere avvelenati e aggiunge che lo Stanfeld è un bon ami della causa italiana, per cui lui, Mazzini, si sente “in obbligo di aiutarlo” e prega l'amica di raccomandarne caldamente i prodotti alle famiglie di sua conoscenza. Nel caso ottenga qualche ordine, lo trasmetta pure direttamente a lui.
    Bah. A leggere l'ultimo passaggio vien fatto da pensare che sulla birra Swan il Nostro si aspettasse di lucrare una provvigione, ma, conoscendo il suo leggendario disinteresse, è difficile crederlo. È più probabile che lo Stanfeld, come facevano, di buona o cattiva voglia, parecchi fornitori dell'Esule, avesse da tempo rinunciato a mandargli il conto e che l'amico cercasse in qualche modo di sdebitarsi, inventando così (o comunque anticipandone la diffusione) se non proprio la pubblicità, almeno la tecnica del testimonial. Il che è meno paradossale di quanto sembra: Mazzini era, sotto molti aspetti, un uomo straordinariamente moderno (a dire di qualcuno, anzi, soffriva di una sorta di presbiopia ideologica, per cui comprendeva meglio i problemi dell'avvenire che quelli del presente) e non c'è da stupirsi che abbia anticipato pratiche e consuetudini più tipiche dei tempi nostri che dei suoi.
    SìIn ogni caso, sarà stato difficile, anche ammesso che Katherine Hill ne seguisse con scrupolo i precetti, che quelle raccomandazioni incrementassero un gran che il giro d'affari della Swan Brewery. La pubblicità, per essere efficace, esige una dimensione di massa e il più autorevole dei testimonial serve a ben poco se non è affidato alla potenza dei media. Che ad assicurare la diffusione di un prodotto bastasse qualche lettera privata, capace di innescare il passaparola degli intenditori, probabilmente non lo credeva nessuno già nella Londra di quegli anni. Ma il Mazzini era fatto così: della dimensione di massa non aveva assolutamente il senso, e non solo a livello del commercio di birra. Anche in politica, pur avendo intuito tra i primi l'importanza della diffusione tra il popolo del verbo della Rivoluzione, non ebbe mai le idee chiarissime sul come organizzarla concretamente, con quali gambe – diremmo noi – farla camminare, e finì per affidarsi soprattutto alle tecniche dell'apostolato, dell'esempio personale. Garibaldi e Cavour erano ideologicamente meno rigorosi, ma di queste cose ne capivano un bel po' più di lui.
    Tuttavia... tuttavia, nello stesso giorno in cui dà notizia del carteggio di cui si è detto, il “Corriere” dedica il servizio di copertina del supplemento settimanale a colei che, grazie a Dio, non sarà mai la nostra regina, ovvero tale Clotilde Pascale Courau, moglie, la povera, di Emanuele Filiberto di Savoia. La quale, va detto, risponde alle varie domande con un aplomb, una discrezione e un senso del politicamente corretto ben superiore a quello dimostrato in più occasioni dai membri maschi della famiglia: condanna con la massima fermezza la firma delle leggi razziali, si vanta di aver lavorato con Amnesty sul tema della dignità femminile, crede che le donne scese in piazza il 13 febbraio avessero ragioni da vendere e alle sue figlie augura non il trono, ma la felicità. Ammette persino di non seguire sempre le trasmissioni televisive dell'augusto consorte. Pure, leggendo quelle eleganti banalità e contemplando le fotografie, altrettanto eleganti e banali, che le accompagnano, non si può evitare un brivido di raccapriccio all'idea di avere quella coppia felice (o qualsiasi altra copia felice, quanto a questo) sul trono. Date retta a me: sarà stata ostinazione o presbiopia, ma sulla pregiudiziale repubblicana il Mazzini non ha mai ceduto e di questo gli va reso onore.
13.03.'11

    Nota

    L'idea della “presbiopia politica” di Giuseppa Mazzini risale, se non mi inganno, a Indro Montanelli, ma non saprei proprio ritrovarne la citazione.