L'ambigua unità

La caccia | Trasmessa il: 11/11/2001



In tempi di pace, suppongo, un’idea come quella del consigliere Mattioli, capogruppo della Margherita a Palazzo Marino, quello che ha proposto, raccogliendo un appello del Presidente Ciampi, che il Comune doti ogni famiglia milanese di un esemplare del tricolore, non avrebbe fatto molta strada.  I milanesi sono gente notoriamente seria, badano al sodo, non hanno mai creduto più di tanto nei simboli e, per di più, della Giunta fa notoriamente parte una forza che all’esibizione della bandiera nazionale non è mai stata propensa, tanto che qualche dietrologo irriducibile avrà persino pensato che l’autore di quella proposta, con fine tratto politico, intendesse creare dell’imbarazzo ai politici del fronte avverso. Invece soffiano i venti di guerra, venti di cui è ben nota cui capacità di sconvolgere le intelligenze più salde, e tutti si scoprono improvvisamente d’accordo.  I leghisti bofonchiano, ma non più di tanto, l’assessore Gallera accetta immediatamente l’invito e, appena due giorni dopo, il vicesindaco De Corato può annunciare che sì, la Giunta ha deciso e la bandiera arriverà presto in tutte le nostre case.  E niente paura per l’aspetto economico dell’operazione, perché il Comune sta già cercando uno o più sponsor.  Non è chiaro se costoro potranno inserire il loro logo nell’amato vessillo e in quale posizione, se nel campo verde all’asta, in quello bianco centrale o nel rosso al battente, ma non c’è dubbio che in qualche modo il problema si risolverà.
        Di fronte alla prospettiva, vi confesso, mi sento, più che altro, imbarazzato.  Nutro un blando rispetto, come gran parte dei miei concittadini, per la bandiera nazionale, non mi sognerei mai di farne l’uso suggerito, anni fa, dal Ministro Bossi, ma alla prospettiva di trovarmene in casa un esemplare, più o meno sponsorizzato, sono incerto su come reagire.
Tanto per cominciare, non saprei cosa farne.  Non potrei farlo sventolare al balcone, perché, risedendo a un piano terra su interno, di balconi, ahimè, non dispongo.  Non posseggo un natante su cui inalberarlo, e anche se lo possedessi non potrei farlo, perché per i natanti si impone – credo – il modello speciale, quello con lo scudo con gli emblemi delle Repubbliche Marinare, nella doppia variante con il Leone di San Marco armato di spada per l’uso in guerra e fornito di libro per le attività di pace.  Non frequento gli stadi e non sono solito partecipare ai cortei e ai caroselli automobilistici dopo le occasionali vittorie della Nazionale di calcio.  Per esprimere il mio attaccamento alla bandiera potrei, al massimo, metterla sotto vetro e appenderla al muro, ma vi assicuro che sulle affollatissime pareti dell’appartamento in cui vivo c’è davvero ben poco spazio.
        Sto scherzando, naturalmente.  Ma scherzo soprattutto per non sentire un certo amaro in bocca.  La proposta, chiamiamola così, Ciampi-Mattioli, sembrerà, a prima vista, un’innocua manifestazione di patriottismo, ma, come ogni ostensione di patriottismo, può essere letta in più modi, non tutti simpaticissimi.  La bandiera simboleggia l’unità nazionale, ma non solo quello.  Il tricolore ha avuto, nella sua storia, significati molteplici.  È nato, con rispetto parlando, come simbolo di sottomissione, perché chiaramente ispirato agli stendardi dell’esercito napoleonico entrato vittorioso nella pianura padana.  E se è vero che quelle insegne riprendevano i colori della Rivoluzione Francese e ne perpetuavano, in un certo senso, gli ideali, ammetterete anche voi che in un simbolo rivoluzionario imposto a mano armata dall’alto si può ravvisare una certa ambiguità.  E di quell’ambiguità, nella sua storia successiva, il tricolore (come tutte le bandiere, del resto) non si è mai liberato.  È stato, nelle mani dei congiurati e dei ribelli del Risorgimento, un emblema di democrazia e, in quelle del governo unitario, un segnacolo di autorità.  L’hanno utilizzato tanto Garibaldi quanto il generale Bava Beccaris.  Ha rappresentato la volontà di un popolo di essere libero, ma anche quella di asservirne degli altri, come ben possono testimoniare libici, eritrei, somali ed etiopi e poi, se un criminale internazionale come Bin Laden ce lo ricorda, è inutile far finta di offendersi.  Ha sventolato a Cefalonia e a Salò.  Perché l’unità nazionale, naturalmente, non è un fatto naturale e spontaneo, e non è neanche un puro prodotto dello Spirito della Storia, come voleva l’ideologia del nazionalismo romantico: è spesso l’effetto di un progetto (o anche, talvolta, di un inganno) voluto da gente che persegue certi suoi particolarissimi fini.  E tali fini ciascun cittadino ha diritto di verificare e di sindacare, senza che gli sia imposta, nemmeno in forma simbolica, alcuna adesione a priori.  Liberissimo chi vuole di sventolare la bandiera propria o altrui al balcone, allo stadio, per strada, in barca o altrove.  Altrettanto libero, chi preferisce, di astenersene.  Sulle opposte opportunità si potrà sempre, con profitto, discutere.  Ma quel gesto di inviare a tutti una bandiera a domicilio rappresenta una, sia pur modesta e implicita, pressione, un invito dall’alto a risolvere quell’ambiguità in un senso più che in un altro.  E questo, tutto sommato, Presidente, consigliere, assessore, vicesindaco e quanti altri potevano anche risparmiarcelo.

11.11.’01