Avrete pianto anche voi tutte le vostre
lacrime – suppongo – per la morte di Charles M. Schulz, il disegnatore
i cui personaggi a fumetti hanno accompagnato la nostra vita fin dai primi
anni ’60, in un certo modo segnandone, alla fine di quel decennio e agli
inizi del successivo, una delle fasi più gratificanti. Non tutti,
naturalmente, avrete l’età per aver vissuto quegli anni, ma chi l’ha
non può non ricordare come l’apparire delle storie di Charlie Brown, Linus,
Lucy e compagni abbia rappresentato una delle grosse novità culturali dell’epoca,
il segno – quasi – di un cambiamento promesso e il preannuncio di una
trasformazione radicale in cui tutti ci sentivamo chiamati a impegnarci.
Come sia andata a finire, naturalmente, lo sappiamo fin troppo bene,
ma è un altro discorso.
Può
darsi, comunque, che le vostre (le nostre) lacrime non siano state tutte
dovute alla commozione. In questo mondo crudele non ci si commuove
più di tanto per la scomparsa di un personaggio pubblico, sia pure benvoluto
e amato. Ma si può anche piangere di rabbia, o di disgusto, o semplicemente
di fastidio di fronte a qualcosa di sgradevole. E poche cose – diciamocelo
– sono state sgradevoli quanto il pressapochismo, la superficialità e
la volontà di banalizzare a ogni costo con cui è stato ricordata, almeno
nel nostro paese, la figura di Schulz. Qui in Italia, di fronte
alla morte, specie se il defunto ha avuto a che fare in qualche modo con
l’infanzia, non sappiamo resistere alla tentazione di versarci sopra delle
tonnellate di melassa. Io, vi assicuro , non so praticamente nulla
della vita dell’inventore dei Peanuts, di cui pure sono stato collega
per quindici anni (non perché disegnassi fumetti, ma perché collaboravamo
entrambi alla stessa testata, poi me mi hanno sbattuto via senza neanche
spiegarmene il motivo e lui naturalmente no), ma sono abbastanza sicuro
che avrà avuto anche lui la sua dose di guai e che per dipingerla come
una specie di favola, appena un po’ lacrimosa, come hanno fatto, scrivendo
di lui, quasi tutti gli autori di “coccodrilli”, come si chiamano in
gergo giornalistico le rievocazioni post mortem, sia stato necessario prendersi
parecchie libertà. Tanto è vero che c’è stato persino chi lo ha
fatto nascere in “un paesino del Minnesota”, senza tener conto del fatto
che la città di Saint Paul, dove il maestro ha visto la luce nel 1923,
era già allora una realtà urbana del tutto rispettabile (conta, attualmente,
i suoi bravi 300.000 abitanti) e, in conurbazione con Minneapolis, formava
e forma una delle più cospicue concentrazioni industriali di quell’area
degli Stati Uniti. Ma nelle fiabe si nasce sempre in un paesino e
di fronte a questa esigenza di genere cosa volete che contino i dati della
geografia?
Ma
queste, in fondo sono sciocchezze. Il fatto è che non c’è stato
un commentatore che non abbia sviluppato, imperterrito, due concetti fondamentali.
Hanno scritto tutti, a), che sotto il velame della commedia infantile
le strisce di Schulz riferivano puntualmente di tensioni, contraddizioni
e problematiche del mondo adulto contemporaneo e, b), che in tutto questo
arco di tempo quelle strisce si sono conservate, nella loro freschezza
e godibilità, sempre mirabilmente uguali a se stesse. Che è vero,
almeno per quel poco che posso giudicare io, ma in patente e non avvertita
contraddizione con quanto asserito prima, perché il nostro mondo dagli
anni ’50 è cambiato parecchio e un prodotto sempre uguale a se stesso
non può ovviamente riflettere un mondo che uguale a se stesso non è più.
Ahimè.
Anche i coccodrilli, intesi come genere giornalistico, hanno le loro
esigenze, una delle quali è appunto quella di tacere accuratamente su eventuali
contraddizioni. Nessuno poteva scrivere (l’ha accennato soltanto,
sul “manifesto”, quel ragazzaccio di Vauro) che i personaggi di Schulz
da un bel po’ non riflettevano più nulla, imbalsamati com’erano in un’immagine
consegnata definitivamente al pubblico almeno trent’anni fa e costretti,
per non scontentare nessun potenziale lettore e/o acquirente, a ripetere
se stessi all’infinito. Come hanno scoperto anni fa a proprie spese
i produttori della Coca Cola, i prodotti industriali di successo non sopportano
i cambiamenti e i Peanuts – impossibile negarlo – erano un tipico prodotto
industriale di successo, replicato infinite volte sulle pagine dei giornali,
sui libri e negli innumerevoli e orribili gadget che da decenni infestano
i negozi di articoli vari. Anche loro rappresentavano, nell’eterna
lotta tra le esigenze artistiche e quelle di mercato che caratterizza la
cultura di massa, un esempio tipico di trionfo del mercato. Tipico
– naturalmente – nel senso che di trionfi dell’arte non mi risulta ne
sia registrato alcuno.
E
in tutto questo, potremmo chiederci, gli autori che ruolo hanno? Eh,
non lo so: bisognerebbe chiederlo a loro. Può darsi che siano contentissimi
della situazione e che a consolarli della perdita della libertà di scrivere,
dipingere o disegnare quel che gli garba (perché di questo si tratta) bastino
quelle poche decine di milioni di dollari che gli passa l’industria. O
può darsi che contenti non siano affatto, che si considerino dei forzati
del successo, condannati come sono all’incessante e – suppongo – fastidiosa
ripetizione di se stessi. A quale di queste categorie appartenesse
Charles Monroe Schulz ovviamente non lo so. Ma è poco ma sicuro che
nessuna delle due situazioni può essere definita “da favola”. Nemmeno
da un coccodrillo.
20.02.’00