Lacrime di coccodrillo

La caccia | Trasmessa il: 02/20/2000



Avrete pianto anche voi tutte le vostre lacrime – suppongo – per la morte di Charles M. Schulz, il disegnatore i cui personaggi a fumetti hanno accompagnato la nostra vita fin dai primi anni ’60, in un certo modo segnandone, alla fine di quel decennio e agli inizi del successivo, una delle fasi più gratificanti.  Non tutti, naturalmente, avrete l’età per aver vissuto quegli anni, ma chi l’ha non può non ricordare come l’apparire delle storie di Charlie Brown, Linus, Lucy e compagni abbia rappresentato una delle grosse novità culturali dell’epoca, il segno – quasi – di un cambiamento promesso e il preannuncio di una trasformazione radicale in cui tutti ci sentivamo chiamati a impegnarci.  Come sia andata a finire, naturalmente, lo sappiamo fin troppo bene, ma è un altro discorso.
        Può darsi, comunque, che le vostre (le nostre) lacrime non siano state tutte dovute alla commozione.  In questo mondo crudele non ci si commuove più di tanto per la scomparsa di un personaggio pubblico, sia pure benvoluto e amato.   Ma si può anche piangere di rabbia, o di disgusto, o semplicemente di fastidio di fronte a qualcosa di sgradevole.  E poche cose – diciamocelo – sono state sgradevoli quanto il pressapochismo, la superficialità e la volontà di banalizzare a ogni costo con cui è stato ricordata, almeno nel nostro paese, la figura di Schulz.   Qui in Italia, di fronte alla morte, specie se il defunto ha avuto a che fare in qualche modo con l’infanzia, non sappiamo resistere alla tentazione di versarci sopra delle tonnellate di melassa.  Io, vi assicuro , non so praticamente nulla della vita dell’inventore dei Peanuts, di cui pure sono stato collega per quindici anni (non perché disegnassi fumetti, ma perché collaboravamo entrambi alla stessa testata, poi me mi hanno sbattuto via senza neanche spiegarmene il motivo e lui naturalmente no), ma sono abbastanza sicuro che avrà avuto anche lui la sua dose di guai e che per dipingerla come una specie di favola, appena un po’ lacrimosa, come hanno fatto, scrivendo di lui, quasi tutti gli autori di “coccodrilli”, come si chiamano in gergo giornalistico le rievocazioni post mortem, sia stato necessario prendersi parecchie libertà.  Tanto è vero che c’è stato persino chi lo ha fatto nascere in “un paesino del Minnesota”, senza tener conto del fatto che la città di Saint Paul, dove il maestro ha visto la luce nel 1923, era già allora una realtà urbana del tutto rispettabile (conta, attualmente, i suoi bravi 300.000 abitanti) e, in conurbazione con Minneapolis, formava e forma una delle più cospicue concentrazioni industriali di quell’area degli Stati Uniti.  Ma nelle fiabe si nasce sempre in un paesino e di fronte a questa esigenza di genere cosa volete che contino i dati della geografia?
        Ma queste, in fondo sono sciocchezze.   Il fatto è che non c’è stato un commentatore che non abbia sviluppato, imperterrito, due concetti fondamentali.  Hanno scritto tutti, a), che sotto il velame della commedia infantile le strisce di Schulz riferivano puntualmente di tensioni, contraddizioni e problematiche del mondo adulto contemporaneo e, b), che in tutto questo arco di tempo quelle strisce si sono conservate, nella loro freschezza e godibilità, sempre mirabilmente uguali a se stesse.  Che è vero, almeno per quel poco che posso giudicare io, ma in patente e non avvertita contraddizione con quanto asserito prima, perché il nostro mondo dagli anni ’50 è cambiato parecchio e un prodotto sempre uguale a se stesso non può ovviamente riflettere un mondo che uguale a se stesso non è più.
        Ahimè.  Anche i coccodrilli, intesi come genere giornalistico, hanno le loro esigenze, una delle quali è appunto quella di tacere accuratamente su eventuali contraddizioni.  Nessuno poteva scrivere (l’ha accennato soltanto, sul “manifesto”, quel ragazzaccio di Vauro) che i personaggi di Schulz da un bel po’ non riflettevano più nulla, imbalsamati com’erano in un’immagine consegnata definitivamente al pubblico almeno trent’anni fa e costretti, per non scontentare nessun potenziale lettore e/o acquirente, a ripetere se stessi all’infinito.  Come hanno scoperto anni fa a proprie spese i produttori della Coca Cola, i prodotti industriali di successo non sopportano i cambiamenti e i Peanuts – impossibile negarlo – erano un tipico prodotto industriale di successo, replicato infinite volte sulle pagine dei giornali, sui libri e negli innumerevoli e orribili gadget che da decenni infestano i negozi di articoli vari.  Anche loro rappresentavano, nell’eterna lotta tra le esigenze artistiche e quelle di mercato che caratterizza la cultura di massa, un  esempio tipico di trionfo del mercato.  Tipico – naturalmente – nel senso che di trionfi dell’arte non mi risulta ne sia registrato alcuno.
        E in tutto questo, potremmo chiederci, gli autori che ruolo hanno?  Eh, non lo so: bisognerebbe chiederlo a loro.  Può darsi che siano contentissimi della situazione e che a consolarli della perdita della libertà di scrivere, dipingere o disegnare quel che gli garba (perché di questo si tratta) bastino quelle poche decine di milioni di dollari che gli passa l’industria.  O può darsi che contenti non siano affatto, che si considerino dei forzati del successo, condannati come sono all’incessante e – suppongo – fastidiosa ripetizione di se stessi.  A quale di queste categorie appartenesse Charles Monroe Schulz ovviamente non lo so.  Ma è poco ma sicuro che nessuna delle due situazioni può essere definita “da favola”.  Nemmeno da un coccodrillo.

20.02.’00