Il movimento anarchico esiste, più o
meno, da due secoli. Figlio dell’Illuminismo, e in particolare del
pensiero di Jean-Jacques Rousseau e di William Goodwin, asserisce come
proprio fondamento il principio per cui gli uomini, esseri ragionevoli
per natura, potranno vivere in pace e fratellanza solo quando si saranno
liberati dalle costrizioni e dalle pastoie sociali che, per ora, impediscono
l’estrinsecarsi della loro basilare mitezza. Questo non esclude,
naturalmente, che per raggiungere certi obiettivi si possa o si debba ricorrere,
se necessario, a forme di lotta violenta, ma garantisce un’impostazione
di fondo piuttosto pacifica. Di fatto, dell’orgia di violenza che
si è abbattuta sul pianeta in questi ultimi duecento anni, gli anarchici,
che, pure, non sono sempre stati così minoritari come oggi, sono stati
responsabili in misura infinitesimale. Solo per un breve periodo,
dopo la morte di Mikhail Bakunin, che l’aveva (più o meno) teorizzata,
qualche loro settore ha creduto alla “propaganda attraverso il gesto”,
come a dire nella eliminazione fisica di certe figure emblematiche del
potere: una pratica invero assai poco libertaria, che vide tra le sue vittime,
com’è noto, il presidente francese Carnot nel 1894, l’imperatrice Elisabetta
d’Austria nel 1898, il re d’Italia Umberto I nel 1900 e il presidente
degli Stati Uniti McKinley nel 1901. Ma fu, per fortuna di tutti,
una breve fiammata e, d’altronde, sono cose di un secolo fa. Quanto
al terrorismo vero e proprio, alla pratica, cioè, di creare delle situazioni
di pericolo a livello di massa con apparati esplosivi o altro, è sempre
stato lontano dalle forme anarchiche di lotta. Qualche brutto episodio
agli anarchici va addebitato senz’altro (il più noto, in Italia, e, per
quanto mi costa, l’ultimo) resta quello delle bombe al teatro Diana di
Milano, del 23 marzo 1921, che fecero ben ventun vittime), ma infinitamente
meno di quanti costellano la storia di movimenti di tutt’altra natura,
come quello sionista in Palestina negli anni della lotta anticoloniale,
o la causa dell’indipendenza irlandese in certi periodi. Naturalmente
di imbecilli se ne trovano dovunque, per cui ci sono canzoni anarchiche
che inneggiano alla dinamite e una volta che mi è capitato di sostenere
delle tesi simili a queste sulla più diffusa delle riviste anarchiche alcuni
lettori se ne sono adontati, come se li avessi accusati di essere imbelli,
ma questo conta poco. Oggi, dopo Oklahoma City e il World Trade Center,
sappiamo tutti che gli specialisti in materia di esplosivi e terrore vanno
cercati (o dovrebbero essere cercati) altrove.
Dovrebbero, perché di fronte a ogni
botto appena superiore a quello di un petardo, a ogni esplosione che turba,
nei momenti di tensione politica, la convivenza civile, si alza sempre
qualche imbecille di alto livello che scopre, magari per esclusione, la
“pista anarchica”. C’è sempre un ministro, un funzionario, un
leader, che, pur ammettendo, bontà sua, la necessità di indagare “in tutte
le direzioni”, propone l’equazione tra terrorismo e anarchia. A
costoro, ahimè, non serve uno sforzo di immaginazione particolare: dai
tempi dei giacobini, che credevano nella Libertà ed erano devoti anche
loro a Rousseau, ma nel concreto preferivano esercitare sui singoli quel
tanto di controllo necessario per impedirgli di fare delle sciocchezze,
a costo di tagliargli – sia pure con rincrescimento – la testa, c’è
sempre stata gente per cui gli anarchici sono, di necessità, propensi alla
violenza, nel senso che ogni individuo, liberato dalle costrizioni provvidenzialmente
poste a difesa dell’armonia sociale dall’autorità costituita, non può
che dare il peggio di sé, liberando le proprie pulsioni più nocive. La
giustapposizione, che si potrebbe ricondurre, su un piano meramente ideologico,
a un maggiore o minore ottimismo a proposito di quello che i singoli possono
fare se lasciati in balia di se stessi, ha sempre avuto delle conseguenze
pratiche piuttosto rilevanti. Alla fiducia nello stato di natura,
si contrappone, di fatto, quella nello Stato di polizia. E anche
se la storia ci insegna che la prontezza nel denunciare la violenza anarchica
nasconde, il più delle volte, un qualche progetto di repressione violenta
e illiberale, secondo un modello che si è ripetuto immutabile, con minime
varianti, dai fatti di Chicago del 1886 all’attentato di piazza Fontana
nel 1969 e oltre, c’è sempre chi, come il ministro Scajola, non si vergogna
dal farla propria.
Il problema non consiste nell’evidente
arretratezza della cultura politica di un ministro così pronto a nascondersi
dietro un luogo comune. Dell’analfabetismo culturale di tutta la
classe dirigente cui appartiene costui abbiamo comunque più prove di quante
ce ne servano. E non consiste neanche nel fatto che conclamando la
pista anarchica si manifesta l’intenzione di perseguitare gli anarchici.
Se così fosse, sarebbe una gran brutta cosa, ma in fondo, oggi come
oggi, a esserne coinvolti sarebbero in pochi. Il fatto è che le “piste
anarchiche”, per la loro stessa vaghezza, si prestano ottimamente a perseguitare
chiunque. Servono per emanare leggi speciali, introdurre procedure
abbreviate, eliminare garanzie fastidiose, imporre attestazioni di lealtà
e legittimare, nel proprio esclusivo interesse, ogni genere di discriminazione
ai danni degli avversari. È tutto un tristo balletto cui, per nostra
sventura, ci è già capitato di assistere e che si è concluso, nel caso
qualcuno l’avesse dimenticato, in una perdita netta di democrazia per
tutta la società. È facilissimo finire in un elenco di cattivi maestri,
o vedersi colpire da un’accusa di concorso morale: molto meno facile liberarsi
delle conseguenze di queste, e analoghe, imputazioni. E il fatto
che, stando al ben noto aforisma marxiano, ciò che la prima volta si è
presentato come tragedia non possa che ricomparire, la seconda, come farsa,
non è poi quella grandissima consolazione.
03.03.’02