la musica di Kabul

La caccia | Trasmessa il: 11/18/2001



Tutti i mezzi d’informazioni, Radio Popolare compresa, si sono premurati di assicurarci che a Kabul è tornata la musica.  Che gli uomini fanno a gara a farsi tagliare la barba.  Che le donne potranno, volendo, dismettere il burqa, anche se non lo hjab, come assicura da Peshawar, bontà sua, tale Sayed Ahmed Gailani, “il grande vecchio dello schieramento monarchico”, e visto che lo hjab lascia scoperte le mani, i piedi e la faccia e sotto non è necessario portare altri indumenti, è già un bel progresso.  Le ragazze, d’altronde, potranno tornare subito a scuola, o, meglio, potrebbero farlo, se in quei mucchi di rovine cui sono attualmente ridotte le città afghane ci fosse una scuola in piedi.
        Sono tutte buone notizie e speriamo che siano vere.  Come speriamo che le agenzie abbiano smesso di riferire di massacri, vendette etniche e fucilazioni nelle strade, come succedeva nei primi giorni dopo l’arrivo dei mujaddin, perché di massacri, vendette e fucilazioni non se ne verificano più, e non perché qualcuno ha pensato che non era il caso di turbare il pubblico occidentale con queste spiacevolezze.  In effetti, per la grande stampa è molto più tranquillizzante insistere sulla musica che fuoriesce gioiosa dalle radioline dei taxi, sugli aquiloni che i bambini fanno volare sulle macerie e sul fatto che tra le merci offerte in vendita nei bazar ci siano nuovamente i rossetti.
Le immagini televisive, a dire il vero, non confermano al cento per cento le parole che giungono da Kabul.  Ci mostrano, soprattutto, delle masse inquiete di uomini più o meno barbuti e una quantità di camion carichi di militari che scorazzano tra le rovine polverose.   La situazione, d’altronde, è tutt’altro che tranquilla e gli stessi giornali che ci descrivono un Afghanistan liberato e ormai prossimo a uscire dalle tenebre del medioevo, devono ricordare, in taglio basso nelle pagine interne, che la guerra, comunque, continua e che continuerà a lungo, perché lo scopo degli alleati, in fondo, non era quello di riportare la modernità in quel paese, ma di eliminare il terrorismo internazionale e da questo punto di vista il lavoro è ancora tutto da fare.  I nostri ragazzi, per fare un esempio a caso, non sono ancora partiti da Brindisi: una situazione, per qualche verso, imbarazzante, tanto è vero che qualcuno ha proposto di mandare in zona di operazioni, finché si fa in tempo, una qualche avanguardia, magari un contingente di carabinieri, che, ancorché non perfettamente informati sulla società afghana e sui suoi problemi, potranno utilmente contribuire a mantenere l’ordine pubblico.
Insomma, che volete: c’era tanto bisogno di buone notizie, di poter dire che questa guerra insensata qualche risultato l’aveva prodotto, che per qualche giorno si è preferito mettere tra parentesi persino Bin Laden.  Ci sarà tempo per ritrovare i toni bellicosi e spiegarci che, burqa o non burqa,  siamo tutti al fronte.  Per adesso, la musica delle radioline di Kabul fa da colonna sonora alle nostre illusioni di pace.  Alle nostre, dico, perché dell’ottimismo degli abitanti di quella città, credo, purtroppo, che sia lecito dubitare.

18.11.’01