La lezione di Archiloco

La caccia | Trasmessa il: 05/08/2011


    “Una cosa sola, ma grande, so fare” dichiarava il poeta Archiloco in un frammento elegiaco (il 66 D delle nostre raccolte): “a chi mi fa del male ricambiare terribili mali”. È una delle manifestazioni più antiche (e più esplicite) dell'etica aristocratica della Grecia antica, quella che prescriveva come dovere ineludibile per l'uomo virtuoso il fare del bene agli amici e del male ai nemici. Era, naturalmente, la norma tipica di una società arcaica, fortemente militarizzata, ma sarebbe restata in vigore molto a lungo. Invano, nei secoli successivi, filosofi e moralisti si sarebbero affannati per depurarla dall'acro sapore della vendetta e per introdurre nel corpo sociale il valore del perdono e della riconciliazione: il mondo classico non avrebbe mai, non dico apprezzato, ma neppure compreso l'invito evangelico a porgere l'altra guancia. È questa una manifestazione, in un certo senso, di quella sottile vena di crudeltà che ne percorre, sotto traccia, l'intera cultura: noi oggi leggiamo i classici attraverso l'interpretazione rassicurante dell'Umanesimo, ma se appena ci sforzassimo di ricostruire il senso autentico di quelle parole, secondo la lezione della migliore filologia del '900, ci renderemmo conto di come il loro mondo fosse assai meno “gentile”, più “primitivo”, di quello che comunemente pensiamo.
    Quanto al porgere l'altra guancia, d'altronde, non si può certo dire che il Cristianesimo ne abbia imposto la pratica in misura adeguata al proprio successo storico e sociale. Nelle comunità cristiane il precetto è sempre stato affermato, in teoria, come norma morale per gli individui, senza che peraltro mai lo facessero proprio né gli stati né i sovrani, che hanno continuato ad applicare con entusiasmo il principio opposto del dente per dente, tanto nei rapporti internazionali, come dimostra l'inesausta pratica della guerra, quanto in quelli governati dal diritto: sono appena due secoli, in fondo, che si discute, senza convincere tutti, della non eticità della pena di morte e nessun sistema giuridico ha mai fatto davvero a meno di quello che, con discrezione, si definisce il “valore afflittivo” della pena. Come a dire che, guancia o non guancia, nessuna società nota ha mai rinunciato a compensare il danno sociale con la sofferenza del reo e quanto più il reo soffriva, fino all'annichilimento, tanto meglio era per tutti. Siamo, nella nostra pretesa civiltà, molto più feroci di quanto pretendiamo di essere e a molti, a moltissimi – ai più, forse – il gusto del sangue non è del tutto sgradito.
    Gli antichi lo sapevano e, un po', se ne vergognavano. Esortavano, infatti, a vendicarsi, sì, ma a non compiacersi troppo per la vendetta. Uccidere i nemici va bene, ma come spiega un altro frammento di Archiloco (il 65 D) “oltraggiare un uomo morto non è certo nobile”. E già nell'Odissea, qualche decennio prima, Ulisse impedisce ad Euriclea di dare sfogo alla propria soddisfazione per la morte dei pretendenti perché “non è pietà su uomini uccisi far festa” (XXII, 412). E le spiega, nei versi seguenti, che quei disgraziati sono stati travolti dalle loro azioni malvagie e dalla Moira dei numi, “perché nessuno onoravano degli uomini in terra, né il tristo né il buono chi arrivasse tra loro” e “così, pel folle orgoglio, turpe fine trovarono”, evitando, forse per modestia, di sottolineare il fatto che, alla fin fine, li ha ammazzati lui. In questi casi è lecito godere in cuor proprio, ma bisogna sempre frenarsi e non esultare.
    Questo, almeno, quando fioriva la società descritta nell'Odissea, verso la fine dell'età del bronzo. Oggi, dopo una trentina di secoli di progresso morale, si può esultare benissimo. Ce ne siamo accorti sbigottiti lunedì scordo, apprendendo dell'entusiasmo popolare con cui è stata accolta, in America e altrove, la notizia della morte di Osama bin Laden, che sicuramente sarà stato colpevole di tutto quanto gli è stato addebitato e avrà meritato mille volte di fare la fine che ha fatto, ma restava, da morto come da vivo, un nostro confratello in umanità. Un confratello traviato, certo, pericoloso, sicuramente, uno di quelli, chissà, cui non si poteva assolutamente permettere di rimanere il vita nemmeno il tempo di catturarli e processarli, come pure ci è stato insegnato che bisogna fare con i delinquenti più turpi senza eccezione, ma perché ballare per le strade e abbracciarsi e agitare le bandiere alla notizia che era stato trucidato e “sepolto” in mare? Per le strade si balla quando finisce una guerra, certo, quando cessa un grave pericolo per la comunità, ma la guerra (se vogliamo chiamarla tale) di cui Osama è stato considerato l'iniziatore non è finita, purtroppo, il rischio terrorismo è sempre all'ordine del giorno, a ritirare le truppe dall'Afghanistan non ci pensa nessuno e può darsi che il pericolo, per via della prevedibile volontà di vendetta altrui, sia persino aumentato, per cui cosa si balla a fare? Non certo perché, come ha detto il Presidente USA, “è stata fatta giustizia”: la giustizia è una cosa troppo importante e troppo difficile perché la si possa amministrare a colpi di arma da fuoco e d'altronde che anche alla Casa Bianca un po' ci si vergogni lo dimostra il succedersi di vari, contrastanti resoconti dell'accaduto. Il giubilo popolare, probabilmente, serve solo a dimostrare, contro la lezione di Archiloco (e dell'Odissea), la propria felicità all'idea che il nemico sia morto. Il che si può sempre fare, se lo si desidera, ma a patto di rendersi conto che facendolo si dimostra soprattutto la propria, incoercibile ferocia. Perché la ferocia che imputiamo al nemico rispecchia il più delle volte la nostra e la colpa che non possiamo perdonare a nessuno, in effetti, è quella di averci spinto a manifestarla.

    08.05.'11


    Nota

    Le citazioni dall'Odissea si valgono dell'ormai classica traduzione einaudiana di Rosa Calzecchi Onesti.