La città di allora

La caccia | Trasmessa il: 06/05/2011


    Osservavo, in questi giorni, le scene di giubilo cui si abbandonavano i milanesi dopo l'elezione del nuovo sindaco e mi veniva fatto di pensare a questa città, in cui sono nato e cresciuto, a quanto l'ho amata nella mia giovinezza e a come sia giunto progressivamente a disgustarmene, anche se, probabilmente, non riuscirei più a vivere altrove. E pur tenendo il debito conto del fatto che agli occhi di chi ha la mia età le cose del passato tendono ad ammantarsi di una luce più lusinghiera di quanto gli spetti, riflettevo, come mi capita spesso, che la Milano di cinquant'anni non aveva davvero nulla a che fare questa. Era, per cominciare, una città generosa e ospitale, che offriva lavoro e integrazione a chiunque vi arrivasse da ogni parte del paese, una città ben organizzata, in cui il livello dei servizi, per una popolazione molto maggiore di quella di oggi, era decisamente più alto, una città sobria in cui non esistevano riti idioti, come quello della “movida”, ma non capitava certo di dover passare in casa troppe serate, perché le occasioni di socialità non mancavano proprio, visto che tra cinema, teatro, opera, concerti e dibattiti vari la vita culturale fioriva un po' dappertutto e la frequentazione delle figure più importanti del circuito artistico internazionale era vertiginosa. Una città che mi ha permesso, senza farmi pagare una lira, di studiare in un liceo di grandissime tradizioni e in un'università in cui insegnavano (e insegnavano davvero!) alcuni dei nomi più noti e riconosciuti della cultura nazionale, ma riuscivano a trovare un loro spazio anche gli irregolari e gli eretici, come quel Silvio Ceccato che occupava uno stanzino in fondo al corridoio del piano terra, subito dopo il guardaroba, e da lì polemizzava da pari a pari con i grandi del pensiero occidentale, e d'altronde il virus dell'anticonformismo era abbastanza diffuso fuori e dentro i Bastioni e capitava spesso di lasciarsene contagiare. Tutt'altra cosa, insomma, della città provinciale e tremebonda, diffidente di tutto e prostrata in adorazione del quattrino che è toccata da governare al buon Pisapia, cui non si può che augurare ogni fortuna, ma senza nascondersi che saranno, come si dice, cazzi durissimi.
    Era, quella Milano, essenzialmente una città operaia, nel senso che la sua vita economica si fondava sull'attività manifatturiera e sulla laboriosità dei suoi addetti. E se le grandi fabbriche e le relative concentrazioni operaie tendevano a collocarsi un po' fuori dai limiti municipali e nelle aree periferiche adiacenti, ce n'erano abbastanza anche all'interno della cinta daziaria, per non dire di quella fittissima rete di officine grandi e piccole, falegnamerie, laboratori, botteghe artigiane e simili che occupavano i cortili dei vecchi quartieri centrali e caratterizzavano in senso, come dire, produttivo il clima sociale.
    Questo non voleva dire che a comandare fossero gli operai, naturalmente: a comandare era sempre la borghesia, ma siccome le classi sociali, come insegna il vecchio Marx, sono legate da una loro particolare dialettica, si trattava di una borghesia che con quella presenza antagonistica e organizzata doveva saper fare i conti e non solo dal punto di vista politico. Certo, la presenza organizzata dei partiti operai era un dato da cui non si poteva prescindere, una garanzia ferrea di antifascismo – come ebbe a scoprire lo stesso Almirante quella volta che gli saltò il ticchio di fare un comizio in piazza Duomo – e di difesa a oltranza delle libertà democratiche, come si sarebbe visto ancora ai tempi delle stragi di stato, ma il confronto era anche più importante dal punto di vista culturale. La borghesia milanese, in un certo qual senso, si trovava impegnata in un continuo confronto con la classe operaia e finiva con l'assumerne, almeno in parte, i valori caratteristici di laboriosità e industriosità. Anche dal punto di vista dei consumi e dello stile di vita, le sue pratiche tendevano a rispecchiare la sobrietà e la riservatezza operaia, il che spiega un certo caratteristico ritegno, la ripugnanza tipica della classe dirigente cittadina verso ogni fenomeno di esibizionismo e di ostentazione volgare.
    Tutto questo, naturalmente, non esiste più. In anni più recenti, man mano che le fabbriche chiudevano, gli operai superstiti venivano trasferiti lontani dal centro, o meglio ancora in provincia, e il potere passava, dalle mani di chi produceva a quelle di chi preferiva speculare sul mercato finanziario ed edilizio, si sono imposti tutt'altri modelli. La “Milano da bere” degli anni '80 è stata il preannuncio della grande calata di braghe dei decenni successivi, quando il metro del valore sociale ha perso ogni riferimento al lavoro e ha cominciato a identificarsi con l'esibizione della disponibilità di contante. Il che significa che tutto, dalla cultura al divertimento, è stato spietatamente monetizzato e che la vita sociale ormai si esaurisce nella ostentazione dei proprio livello economico o di quello che si vorrebbe avere o che si vuol far credere di avere. Perché chi ha i soldi li spende con allegra dissennatezza e quanto più dissennatamente lo fa tanto più guadagna in prestigio e ammirazione e a chi non ne ha non lascia altra scelta che quella di imitare, in forme più o meno taroccate, l'esibizionismo dei fortunati. Perché l'unica cultura ammessa e riconosciuta è quella del quattrino, le proposte alternative sono a rischio permanente di criminalizzazione e la presenza di non abbienti, semplicemente, non è prevista, tanto è vero che si costruiscono soltanto grattacieli per uffici e case di lusso, anche a costo di lasciarle desolatamente vuote.
    Probabilmente esagero, come capita spesso a noi anziani quando ci lasciamo portare dalla tendenza a deprecare tempi e costumi. E, d'altro canto, se in città non esistesse altro, se non fosse presente, almeno a livello di coscienza, una possibile alternativa, avremmo ancora la Moratti a Palazzo Marino e De Corato come suo braccio armato, in perenne rissa con i rom e i cinesi di via Paolo Sarpi. Invece ha vinto Pisapia e di quei due tristi personaggi speriamo di non sentir più parlare. Tuttavia, faremmo bene a tener presente quali sono i termini del problema, che è essenzialmente quello di restituire la città ai ceti produttivi, creando da una parte lavoro e dall'altra possibilità di insediamento per i lavoratori. Le fabbriche, naturalmente, non ci sono più e non torneranno mai, perché sono cambiate la tecnologia e la sociologia della produzione, ma questo non significa che il destino della città debba restare nelle mani degli speculatori, dei mercanti di danaro e dei vari furbetti che attorno a loro proliferano. Quello di cui Milano ha bisogno, in sostanza, è una sorta di nuovo patto sociale, che riconosca le dignità delle nuove forme di organizzazione del lavoro, a partire da quelle del precariato giovanile. Non sarà facile, ma è l'unica possibilità di far nascere una nuova cultura cittadina degna delle nostre tradizioni democratiche.
    Tutto il resto, la moschea, il traffico, la forza gentile, le polveri sottili, l'aria, il verde, la consultazione, i referendum, l'expo, i parcheggi, eccetera, va benissimo, ma non basta. Suppongo che il nuovo sindaco lo sappia benissimo e questo spiega quella espressione da chi me l'ha fatto fare che,a volte, balena sui suoi lineamenti. Ma è quando il gioco si fa duro che i duri scendono in campo e se no che divertimento ci sarebbe e in ogni caso di prefetti e di amministratori di condominio ne abbiamo già avuto abbastanza. Be', auguri a tutti.
    05.06.'11