La casa e la spina

La caccia | Trasmessa il: 02/20/2011


    Mi sembra di ricordare che sia in programma, in uno dei prossimi giorni, l'assemblea ordinaria dell'Associazione Lombarda dei Giornalisti, un evento dal quale, pur facendo parte di quella benemerita organizzazione da quasi mezzo secolo, tendo di solito ad autoesonerarmi. Quest'anno, tuttavia, una mezza intenzione di partecipare ce l'ho: mi piacerebbe proporre una delibera, o un invito, o una petizione, o quel che altro si possa avanzare in quella sede, per invitare (o, meglio ancora, impegnare) i colleghi ad astenersi, nei titoli e nel corpo dei loro articoli, dall'affermazione per cui se la Lega non “porterà a casa” il federalismo non avrà altra alternativa che “staccare la spina” al governo. Si tratta di una proposizione, ne converrete, che ricorre con una certa, eccessiva frequenza su quotidiani e periodici vari e, francamente, me ne sono stancato. Non solo perché tutte le ripetizioni, dopo un po', vengono a noia, ma perché questa mi sembra singolarmente ingannevole, nonché offensiva per il cittadino elettore. Perché l'iterazione, ormai tristemente abituale, di quella frase dà per scontata un'analisi sulla quale si potrebbero fare le più ampie riserve e assegna ai partecipanti al gioco politico dei ruoli che non sono i loro. E perché va bene sfruttare finché si può una espressione efficace, ma il troppo stroppia e la più espressiva delle formulazioni fa in fretta a ridursi a un banale luogo comune.
    Questa faccenda della casa e della spina, se ben ricordata, fu tirata in ballo, all'inizio, dagli stessi capoccia leghisti, non so se da Bossi in persona, o da Calderoli, Castelli o un altro di quei figuri. Andava intesa come una manifestazione della brutale franchezza (o, se preferite, di franca brutalità) di cui quel partito tende ad ammantarsi nelle sue comunicazioni alle masse e sottintendeva il cui concetto per cui l'appoggio nordista al governo è finalizzato esclusivamente al compimento dell'ideale federale, in mancanza del quale esso verrà inesorabilmente a cadere. Funzionava come monito per gli alleati (non perdete tempo in cazzate, perché le cose che contano sono ben altre) e come strizzatina d'occhio per gli avversari, cui si faceva capire che i bravi leghisti non avevano nulla a che fare con gli interessi, i conflitti e i peccatucci del capo del governo, ma perseguivano un obiettivo loro e in politica, si sa, si prendono gli alleati che si trovano. E siccome consisteva, in ultima analisi, nella minaccia di provocare le elezioni anticipate, serviva benissimo a intimidire quanti, nei due schieramenti, di andare al voto non avevano punto voglia.
    Naturalmente, sul piano comunicativo, c'era qualche controindicazione. Presentare un obiettivo, quale che sia, come qualcosa da “portare a casa” significa connotarlo come un interesse di parte, qualcosa che sta a cuore a chi lo propone, ma non è di necessità orientato al bene del paese tutto: come se, in definitiva, una organizzazione federale dello stato convenisse più alla Lega che alla Repubblica. Ma di quanto conviene alla Repubblica nel suo complesso i leghisti non hanno mai affermato di volersi occupare più che tanto e il confondere l'interesse di parte con quello generale in politica è un vizio tanto diffuso che si può benissimo passarci sopra. Più grave, forse, era il ricorso all'immagine dello “staccare la spina”, che, dopo tutto, è entrata nell'uso comune in riferimento ai macchinari che tengono in vita – si fa per dire – i pazienti in coma, perché se quel coma riguardava, come non poteva non riguardare, il governo nel suo complesso, non si capiva come se ne potesse considerare esente una forza che di quel governo era parte essenziale. A prendere la dolorosa decisione di staccare la spina deve essere per forza qualcuno che in coma non è. Ma su quell'equivoco, come abbiamo notato, si reggeva l'intera strategia di Bossi e dei suoi, e l'esprimerlo in quella forma serviva appunto ad asseverare il concetto. Come tutti gli slogan fortunati, questo del portare o dello staccare non invita al ragionamento, ma sollecita un'adesione istintiva. Le contraddizioni che evoca saranno forse leggermente al di sopra del livello di comprensione dell'elettorato medio del partito che lo propone, ma di questo chi non ha mai disdegnato di far leva sulle pulsioni irrazionali dei sostenitori non potrà che compiacersi.
    Poi, quello che era, appunto, un felice slogan di parte è diventata una proposizione generalista. Affascinati dalla sua icasticità, gli operatori della informazione ne hanno fatto un uso spropositato. Oggi come oggi, non c'è cronista o commentatore che non annoveri tra le possibilità di cui tener conto quella che la Lega, non avendo portato a casa ciò che voleva portare, decida di staccare la spina. L'invito a farlo – o, più spesso a non farlo – risuona sulle bocche dei politici più rinomati. L'ultimo, se non mi inganno, è stato Veltroni, che dalla pagine di “Repubblica”, qualche giorno fa, invitava Bossi e compagni a non esitare più e a procedere senza indugi a quel salutare gesto di eutanasia. E tra ministri del PdL che dichiarano di essere certi che mai l'amico Bossi si lascerà andare a tanta nequizia e leader della opposizione che confessano di non auspicare altro, il dibattito tende inesorabilmente ad avvitarsi su se stesso e non c'è da stupirsi se finisce con il ripiegare con desolante prevedibilità sul tema, di levatura politica non eccelsa, delle notti brave di Arcore.
    Tutto questo, naturalmente, dà per scontate alcune cose. Che dei leghisti ci si possa fidare, per esempio. Che a loro importi davvero qualcosa del federalismo, inteso come riorganizzazione razionale di tutto l'apparato dello stato. E che il loro appoggio al governo sia un dato contingente, giustificato da un interesse superiore, e non un patto sul lungo periodo per la spartizione del potere. Perché a Bossi, forse, non dispiacerebbe buttare a mare un alleato così imbarazzante come il Berlusca, ma ormai è condannato a restare con lui dall'orientamento stabilmente reazionario di entrambi gli elettorati e ogni speranza di vederli divisi come ai bei tempi del '96 va considerata una mera ipotesi d'archivio. Oggi, specialmente, che la destra ha capito che non è detto che le elezioni anticipate siano la passeggiata che immaginava fino a qualche tempo fa, è giocoforza rassegnarsi all'idea di vederli insieme ancora per un bel pezzo. O insieme di vederli cadere, naturalmente, ma perché si realizzi questa eventualità bisognerebbe fare, ogni tanto, anche un po' di politica.
20.02.'11