Il primo volume della “Storia” di “Repubblica”, distribuito ai
lettori del noto quotidiano nello scorso settembre, consta esattamente
di 800 pagine formato 14 x 22, e copre, come da sottotitolo, le vicende
umane “dalla Preistoria all’antico Egitto”. È un arco di tempo
che, anche senza tener conto dei capitoli introduttivi sull’origine dell’uomo,
il paleolitico e affini, va dal 2900 al 30 a.C. (dalla prima dinastia sumerica
alla battaglia di Azio, considerata come “la fine dell’indipendenza”
egiziana) e che, nell’appendice dedicata alle “civiltà dei continenti
extraeuropei” – strana definizione, che attribuisce, chissà perché, le
culture mesopotamiche, siriache ed egiziane al nostro continente – arriva
fino al 618 dell’era volgare, la data dell’insediamento dei T’ang in
Cina. Non tutta la materia, naturalmente, è trattata con la stessa
ampiezza, ma, nell’insieme, si può dire che il corpo redazionale, sotto
la direzione di Massimo L. Salvatori, fa del suo meglio per fornire al
lettore un’informazione non troppo approssimativa su oltre tre millenni
e mezzo di storia.
Il ventiquattresimo volume della stessa opera,
in edicola nella settimana testé trascorsa, ha 16 pagine in più, ma limita
la propria materia alle cose italiane “dalla fine degli anni ’80 a oggi”,
con un deficit cronologico di ben tremilacinquecentotre anni. Ciò
significa, va da sé, che fatti, figure e problemi vengono indagati su scala
ben diversa. Se nel primo volume – per esempio – un capitolo poteva
essere intestato a “Il primo impero babilonese (2017-1595 a.C.)” e contenere
dei box su Babilonia dalla fondazione alla conquista degli Arabi o Hammurabi,
sovrano e legislatore, nell’ultimo leggeremo delle sezioni di pari ampiezza
dedicate a quanto è accaduto “Dalla fine degli anni Ottanta all’esplosione
di Tangentopoli” o “Da Mani Pulite al secondo governo Berlusconi”, e
gli approfondimenti a latere riguarderanno, per dire, Il caso Sofri, Le
trasmissioni di Michele Santoro o L’Italia, porta dell’Occidente, che
è un titolo elegante per accennare ai problemi dell’immigrazione clandestina.
Silvio Berlusconi, così, si prende molto più spazio non che di Hammurabi,
di tutti Faraoni messi insieme e il resoconto della fine ingloriosa del
partito socialista di Bettino Craxi (ammesso che, in questi tempi di recuperi,
la si possa ancora definire ingloriosa) coprono più pagine di quelle dedicate
a “Gli Ebrei da Abramo all’esilio in Babilonia”, incluso il box su La
Bibbia come fonte storica.
In tutto questo, naturalmente, non c’è nulla
di strano. Siamo abituati fin dai banchi di scuola a una simile impostazione
“a imbuto” della storia e, del resto, non mancano le cause oggettive
– come i problemi di documentazione – che la giustificano e quasi la
impongono. Chi si occupa di storia antica e antichissima deve estrapolare
da una banca dati assai più povera di quella che ha a disposizione lo studioso
di fatti più vicini nel tempo e spesso l’esiguità delle fonti impone (o
dovrebbe imporre) una trattazione abbastanza succinta. Anche se un
tentativo di mantenere una maggiore omogeneità di impostazione sarebbe
auspicabile in un’opera che si pretende unitaria, è ovvio che a una collana
di divulgazione come questa non si può chiedere più di tanto. Il
problema, come si dice, sta a monte, nella pretesa di “fare storia” allo
stesso modo e con gli stessi criteri con i fatti remoti e con quelli (quasi)
contemporanei, come se le categorie con cui si definisce e si giudica il
passato fossero le stesse che applichiamo al presente, il che è assurdo,
perché qualsiasi cosa uno possa pensare di Hammurabi ben difficilmente
potrà riguardare Berlusconi e viceversa. Ma questo è appunto un problema
a monte, che riguarda la definizione della storiografia nel suo complesso
come disciplina unitaria e che, personalmente, sono ben lieto di lasciare
alle cure degli specialisti e degli accademici, due gruppi cui non ho il
privilegio di appartenere.
Ma, certo, fa una strana impressione leggere
in un testo che si definisce di storia di avvenimenti cui si ha avuto occasione
di partecipare personalmente. Da questo punto di vista, più che dal
ventiquattresimo volume io mi sono sentito, come dire, spiazzato dal ventitreesimo,
che, dedicato com’è ai casi “Dagli anni di piombo agli anni Ottanta”
rievoca parecchi episodi di cui, senza essere uno storico, ho avuto occasione
di occuparmi. O dal ventiduesimo, in cui si tratta ampiamente dei
miti, degli errori e dei programmi (in genere fallimentari) che hanno caratterizzato
una larga parte della mia vita. E qui il problema non è di documentazione
o di completezza, anche se mi sembra ingiusto che, tra i corsivi dedicati
a Lascia o raddoppia e ai “capelloni”, al Festival di Sanremo e alla
fondazione di “Repubblica”, a Italia – Germania 4 a 3 e al TG2 di Andrea
Barbato, non ce ne sia uno su Radio Popolare e La Caccia. In sostanza,
direi che gli autori non sono riusciti a convincermi, nonostante tutto,
che i casi del movimento degli studenti, di cui sono stato uno dei primi
cronisti con un libro del settembre del ’69, o quelli della nuova sinistra,
nei quali, nel mio piccolo, mi sono avventurato di persona, possano essere
attribuiti tout court alla storia (con la maiuscola o con la minuscola,
a piacere) e lasciati lì.
Questo è il punto. Fare storia, fin dai
tempi di Tucidide, comporta un giudizio definitivo, ma, come Solone spiegava
a Creso, almeno stando a quanto racconta Erodoto, che della storia è considerato
il padre, dai giudizi definitivi espressi con troppo anticipo è bene diffidare.
Così io, pervicace come sono nei miei errori, non riesco a considerare
conclusi i dibattiti e le lotte di quegli anni. Sarà un caso di ostinazione
senile, ma continuo a vederli come partite aperte, il cui esito è meno
scontato di quanto ritengano (o auspichino) i tanti guardiani e zelatori
dello stato di cose presente che sovrintendono oggi alla nostra disciplina
ideologica e culturale. E anche se la storia, per definizione, non
è mai conclusa, nel senso che da tutto il suo svolgimento, anche remoto,
dipende l’attualità, il tentativo di inserire in un discorso ininterrotto
e, soprattutto, concluso gli assiro-babilonesi e l’autunno caldo, l’Impero
romano e l’autogestione, Attila e il sei politico, a esaminarlo un po’
da vicino, mostra parecchia corda. Più che a un progetto culturale
coerente, sembra affidarsi alla uniformità delle copertine e della impostazione
grafica dei volumi e quella stessa struttura a imbuto da cui siamo partito
può essere considerata una prova della sua inconsistenza intrinseca.
D’altronde, rinchiudere gli ultimi quarant’anni in un libro di storia
può essere comodo per tutti – a noi potrebbe risparmiare, per esempio,
delle riflessioni sgradevoli, come quelle imposte dal caso Lollo – ma
è meno facile di quanto non sembri.
13.02.’05