Non so se sia giusto considerare Gianfranco Fini, come
si è letto da qualche parte, il nostro primo Ministro degli Esteri fascista
dopo Galeazzo Ciano. Anzi, tutto sommato, penso che non lo sia. Non
lo è, se non altro, perché si è preso il disturbo di dichiarare in pubblico
che lui con il fascismo aveva chiuso una volta per tutte e, anche se delle
dichiarazioni del genere è sempre meglio diffidare un po’, correttezza
vuole che, fino a prova contraria, le si prendano per buone. Il discorso,
certo, sarebbe diverso per il suo partito e il relativo elettorato, in
cui, credo, di fascisti non si sente penuria, ma questo è un dato che,
stricto sensu, non lo riguarda.
E poi, suvvia, i due
personaggi sono troppo diversi tra loro per poter azzardare dei paragoni.
Fini, quali che siano i suoi difetti, non è un figlio di papà giunto
ai vertici della diplomazia nazionale per aver sposato la figlia del boss:
è uno che per costruire la sua attuale posizione politica si è fatto, come
si dice, un mazzo così. Un fascista, se vogliamo (almeno fino all’abiura
di cui sopra), ma un fascista operoso e non privo di sale in zucca, tutt’altra
cosa, dunque, del povero Galeazzo, che, almeno a giudicare dalla decisione
di rifugiarsi, dopo l’8 settembre, proprio in Germania, di cervello doveva
averne, per sua disgrazia, una fornitura inferiore alla media. E
se può dare abbastanza fastidio sapere che una delle cariche politiche
più importanti del paese è finita in mano al presidente di Alleanza Nazionale,
resta vero che su quella poltrona la politica italiana non ha mai saputo
insediare dei grandissimi statisti. La stessa sinistra, nella breve
stagione in cui fu al governo, non seppe fare di meglio che metterci Lamberto
Dini.
Tutto ciò doverosamente
premesso, resta vero che una cosa in comune la nomina di Galeazzo Ciano
e quella di Gianfranco Fini ce l’hanno. In entrambi i casi, a pensarci,
si tratta di nomine affatto irrilevanti. Perché un Ministro degli
Esteri sia un personaggio degno di encomio e reverenza, destinato a raccogliere
il plauso degli ambienti internazionali e a finire, a suo tempo, sui libri
di scuola e sulle targhe delle vie, è necessario che gli si dia da gestire
una politica adeguata, o, al minimo, interessante. Ora, l’Italia
repubblicana, nonostante il buon apparato diplomatico di cui si dice disponga,
una politica estera degna di questo nome non l’ha mai avuta, a meno che
si voglia far passare per tale il semisecolare appiattimento a pelle di
fico di fronte al padrone americano. E in questo pur modestissimo
ambito, al momento, le iniziative di un qualche interesse le gestisce direttamente
Berlusconi, che infatti si è potuto permettere di cambiare quattro titolari
alla Farnesina in tre anni e mezzo con la disinvoltura di chi cambia dei
collaboratori non troppo importanti.
Prima della guerra, forse, le circostanze erano per certi
aspetti diverse, se non altro perché era diverso il padrone, ma anche allora
il timone degli affari diplomatici era solidamente nelle mani del duce
e al ministro competente non restava che metterci, quando richiesto, la
firma. Né mi sembra, in tutta sincerità, che al suo attuale successore
restino molte altre incombenze.
Perché cosa si può fare, in definitiva, in una situazione
del genere? Poco, pochissimo. Si può provare a fare un po’
di fronda, come fece appunto Ciano e probabilmente farà Fini, ma più per
passare il tempo che altro. Si può cercare di trarre dalla nuova
posizione qualche vantaggio politico e da questo punto di vista Fini è
in vantaggio sul predecessore, perché lui ha un partito cui badare
e la prospettiva di arricchire di nuovi parametri la mappa partitica della
diplomazia, in cui il lotto in quota ad Avanguardia Nazionale sembra sia
sottostimato, dovrebbe bastare a tenere occupato per un po’ qualsiasi
politico. Dopo di che, possiamo stare sicuri che a scodinzolare davanti
a Bush e a pavoneggiarsi di fronte a Putin ci sarà, come sempre, l’ineffabile
Berlusconi.
Che tutto questo faccia onore al paese, naturalmente,
è cosa assai dubbia. Ma dubito che la cosa importi a qualcuno. E
non è neanche questione di persone: il difetto, ahimè, sta veramente nel
manico.
21.11.’04