Anni fa, quando frequentavo le scuole medie, si poteva
trovare nei chioschi e nelle tabaccherie una serie di cartoline intitolata
“Se Milano avesse il mare”. Erano delle vignette lucide in bianco
e nero, come si usava allora, e raffiguravano, con una tecnica di fotomontaggio
piuttosto rozza, delle improbabili scene di spiagge in piazza Duomo, scogliere
davanti alla Stazione Centrale e attracchi di bastimenti al Cordusio.
Il risultato non poteva essere altro che grottesco, ma a qualcuno evidentemente
piaceva, tanto è vero che se ne continuarono a vendere per un pezzo e ancor
oggi c’è chi se le ricorda.
Tra costoro deve annoverarsi
qualcuno che ha un certo peso nel governo attuale della città. Tanto
è vero che dall’altro ieri, per la seconda stagione consecutiva, il mare
a Milano c’è. È bastato, per ottenerlo, spargere attorno all’Arco
della Pace, in piazza Sempione, non so quante tonnellate di sabbia del
Ticino, collocarvi due piscine e duecento sedie a sdraio, destinarne un
settore a campo di beach soccer, beach volley, bocce e calciobalilla umano
(qualsiasi cosa sia), arredare l’area residua con gazebo e “strutture
a vela” capaci di accogliere bar, locale per idromassaggio, parrucchiere,
lettini abbronzanti e quant’altro, compresi gli impianti necessari per
navigare in Internet senza fili. E poi rose, ulivi, bambù e palme,
che l’anno scorso erano artificiali, ma forse questa estate saranno autentiche,
sia pure in vaso. Il mare in senso stretto, naturalmente, non c’è
e a farne le veci non bastano le piscine (quella per adulti misura dieci
metri per cinque e ai bambini, povere creature, ne tocca una di soli sei
metri per tre), ma la spiaggia, in un certo senso, sì e l’anno scorso,
in verità, i nostri concittadini hanno mostrato di gradire l’iniziativa,
firmata dall’assessore ai Grandi Eventi del Comune, e sono accorsi a frotte
in piazza Sempione, per un totale di ben trecentocinquantamila presenze.
Può sembrar strano,
ma è comprensibile. I milanesi, notoriamente, sono di bocca buona
o, per lo meno, hanno imparato a fare di necessità virtù. In una
città che da sempre si illude di porre rimedio alla propria vocazione autodistruttiva
con un uso massiccio del surrogato e della falsificazione, in una città
che si è saputa (o dovuta) accontentare del falso gotico del Duomo, del
falso romanico di San Ambrogio del falso Rinascimento del Castello e del
falso neoclassico della (nuova) Scala, un surrogato di spiaggia può avere
il suo senso. D’altronde, nel parco, a poche decine di metri da
quelle strutture, hanno montato da poco la falsa fattoria, in cui i bambini
– ci dicono – potranno scoprire come sono fatte davvero galline e caprette,
due specie animali che, notoriamente, vivono nei parchi urbani, e poco
più in là, in Piazza del Cannone, un falso villaggio di false casette ospita
varie attività commerciali e di intrattenimento che, a quanto pare, non
si potevano proprio sistemare altrove. Questi e non altri, d’altronde,
sono i grandi eventi che possiamo aspettarci dal comune. Sarebbe
futile lamentarsene e pretendere che, invece di una falsa spiaggia, l’amministrazione
fornisca ai cittadini un vero sistema di attrezzature sportive, compreso
un congruo numero di piscine all’aperto e di aree verdi: viviamo nell’età
dell’apparenza e gli unici progetti che interessano agli amministratori
sono, in perfetta consequenzialità, quelli che appaiono.
Non è chiaro, tuttavia,
quanto tutto ciò possa giovare al Parco Sempione, che è, lui sì, un parco
vero, realizzato con ampiezza di vedute e gusto sicuro in un’epoca in
cui alle necessità di fondo della vita cittadina si prestava evidentemente
più attenzione di oggi, perché un polmone verde di 470 ettari non era niente
male per la Milano di fine ‘800 e non è colpa di Emilio Alemagna, che
lo ha progettato, se è restato praticamente l’unico in centro, nonostante
il crescere della città. Né quanto possa giovare all’Arco della
Pace, insigne fabbrica neoclassica di Luigi Cagnola, nonché uno dei pochi
monumenti non taroccati di cui la città possa vantarsi, già disturbato
non poco dall’arredo urbano in cui lo si è voluto inserire, sconciato
da una specie di ringhiera da ballatoio attorno alla sestiga del Sangiorgio
e alle quattro Vittorie del Putti, e ridotto, oggi, a quinta decorativa
di una ridicola attrezzatura pseudobalneare che, più che a una Disneyland
in sedicesimo rischia di assomigliare (e l’anno scorso di fatto rassomigliava)
a un piccolo carnaio.
Eppure i milanesi,
stando a quanto si legge, si direbbero anche troppo sensibili al problema
del buon uso e della dignità dei loro pochi monumenti e dei loro pochissimi
spazi verdi. Pensate a tutto il bailamme che hanno fatto, appena
un paio di settimane fa, sul problema dei picnic extracomunitari nel verde
pubblico. Il fatto che un certo numero di famiglie latinoamericane
o d’altra origine avessero preso l’abitudine di riunirsi a convito la
domenica sui prati del Sempione (ma anche su quelli di giardini più periferici,
come il Forlanini, la Montagnetta, il Parco Lambro e simili) è stato additato,
in molti articoli e servizi, in infinite lettere ai giornali e con altre
prese di posizione, come uno scandalo, una intollerabile soperchieria,
un atto di violenza morale verso chi in quegli spazi voleva semplicemente
passare qualche ora in pace. Non che nessuno ce l’avesse con gli
ecuadoriani o i filippini in quanto tali, per carità, esattamente come
nessuno ce l’ha con i cinesi di Paolo Sarpi e Bramante perché sono cinesi.
Era un problema di ordine, di pulizia e, soprattutto, di una dignità
che troppe cartacce, troppe lattine di birra e troppi fumi di carne alla
griglia riducevano a zero. E in nome di questi valori l’amministrazione
si è affrettata a intervenire a suon di provvedimenti coercitivi.
Oggi, la stessa amministrazione consente e organizza,
in una zona al tempo stesso verde e monumentale, un’aggregazione che,
quanto a capacità di recare molestia ai residenti, esibire volgarità di
ogni tipo e far danno sul piano ambientale supera di gran lunga qualsiasi
barbecue ispanico o cingalese. Ma nessuno protesta, forse perché
gli extracomunitari, essendo già piuttosto scurotti di loro, non hanno
necessità di abbronzarsi e su quella finta spiaggia non porranno mai piede.
Insomma, se Milano
fosse una città seria, se non fosse ormai inquinata dal razzismo e dall’indifferenza
edonista verso i problemi degli altri, simili contraddizioni non
sarebbero ammesse. Ma anche questa, ahimè, è una proposizione assimilabile
al “se Milano avesse il mare” di cui vi dicevo prima. In latino,
che è una lingua precisa, bisognerebbe esprimerla con un periodo ipotetico
di terzo tipo. Quello, se ricordate, che esprime l’assoluta impossibilità.
29.05.’05