Io e Sartre

La caccia | Trasmessa il: 11/29/1998



C’è un raccontino dei primi anni ’60 – credo che sia opera di quello straordinario scrittore che è stato John Rodolfo Wilcock – in cui si racconta di come Jean Paul Sartre, nonostante il suo status di grande filosofo (o forse proprio per quello), sia tormentato dal desiderio di sapere quale ricordo e giudizio su di lui potrebbero esprimere i posteri.  Per cui stipula il classico patto con il Demonio, che, previo il consueto impegno di cessione dell’anima, gli concede di consultare la più importante enciclopedia, mi sembra, dell’anno 2500.  Nella quale, allibito, il padre dell’esistenzialismo leggerà:  “Sartre, Jean Paul, filosofo e scrittore del secolo XX, personaggio probabilmente di fantasia citato in un racconto di John Rodolfo Wilcock.”
        È una storiella divertente, ma oggi ve l’ho raccontata soprattutto perché anche a me, nel mio piccolo, è capitato qualcosa del genere, e senza alcun bisogno di vender l’anima a un diavolo che, con ogni probabilità, non sarebbe interessato all’affare.  Vedete, anche a me, come a Sartre, non dispiace sapere cosa si dice e, possibilmente, si dirà su di me.  Per cui, quando esce un libro che parla di qualcosa con cui ho avuto a che fare, o di qualche argomento di cui mi sono occupato o su cui ho scritto, non so resistere alla tentazione di andare a controllare, ove siano presenti, l’indice dei nomi e la bibliografia, per vedere se per caso non vi sono citato.  Di solito, naturalmente, la risposta è no.  Però la settimana scorsa, in libreria, mi è capitato sottomano un libro dall’aria promettente, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione – 1968-1978: storia di Lotta continua, di Aldo Cazzullo, edito da Mondadori in una prestigiosa collana di storia e memorialistica.  Io di Lotta continua ho fatto parte, anche se all’epoca non ero più un ragazzino, per cui mi sono affrettato a consultare il ricco indice dei nomi.  E ho scoperto che questa volta – accidenti! – c’ero   proprio.  Per cui mi sono affrettato a comperare il volume, me lo sono portato a casa un po’ trepidante e a pagina 248 ho potuto leggere che alla rivista “Il pane e le rose”, promossa da Nino Vento, Goffredo Fofi e Lidia Ravera, collaborava, tra gli altri, “un insegnante milanese dalle orecchie a sventola, Carlo Oliva”.  E basta.
        Lì per lì, vi confesso, ci sono restato male.  Non perché avessi nulla da eccepire alla descrizione: in effetti sono milanese, in quegli anni facevo l’insegnante, mi sono dato parecchio da fare con “Il pane e le rose” e, quanto alle orecchie, non posso negare che protrudano dalla mia scatola cranica con una certa insolita angolatura.  Ma, insomma, non nego che se avessero chiesto a me di definire il mio ruolo e la mia funzione in Lotta continua sarei stato, diciamo, un po’ più prodigo di particolari.   Tutto il libro (che in sé mi è sembrato un tentativo particolarmente onesto ed equilibrato di ricostruire una fase storica controversa e intricata e che vi raccomando senza riserve) è intessuto di testimonianze in prima persona, comprese quelle di taluni che, onestamente, in quell’organizzazione hanno avuto una parte più modesta di quella, pur modestissima, che vi ho avuto io.  E non poteva questo Aldo Cazzullo, visto che c’era, venire a interrogare anche me, invece di farsi raccontare da un altro di che forma avevo (e ho) le orecchie?
        Poi ci ho riflettuto un po’ e l’irritazione mi è passata.  E non solo perché capisco anch’io che quella definizione è stata data in tono, tutto sommato, affettuoso.  Il fatto è che, leggendo quel libro, si scopre che buona parte di quei miei compagni di allora che hanno avuto la ventura di poter parlare di se stessi e di cosa hanno fatto o non hanno fatto in quegli anni, ha ceduto, chi più chi meno, a una tentazione forse inevitabile, ma un po’ antipatica.  Hanno finito con il parlare, come si dice, con il senno del poi.  Hanno reinterpretato se stessi e la loro storia con la consapevolezza, spesso amara, di quel che è successo dopo la fine dell’esperienza di Lotta continua (e, in generale, della “nuova sinistra”): con la consapevolezza del terrorismo, degli anni di piombo, della crisi della politica, dello sconquasso ideologico degli anni ’80 e ’90.  Il che non significa che non siano stati, in grandissima maggioranza, sinceri, o sinceramente disposti a dar ragione delle loro scelte di allora: fatto sta che non è ovviamente possibile parlare del passato senza usare le categorie e il sistema di valori del presente.  Se è già difficile per lo storico che lavora sui documenti e non ha, in linea di principio, responsabilità personali nei fatti che racconta, figuriamoci quanto lo è per chi deve esprimere, in sostanza, un giudizio su se stesso.   È ben difficile che non si sottolineino, delle proprie azioni, quegli aspetti che oggi, diversamente da ieri, si sanno orientati nel senso della storia (se mi passate l’espressione), enfatizzando le previsioni e le iniziative che hanno avuto successo e lasciando discretamente nell’ombra quelle che si sono rivelate fallimentari.   Con il risultato che, nella memoria dei protagonisti, qualsiasi vicenda controversa rischia di fare un po’ l’impressione, toccate pure ferro, di un cimitero, in cui le lapidi esaltano, di ogni singolo ospite, la sapienza e la bontà, spingendo il visitatore a chiedersi dove mai siano seppelliti i tanti imbecilli e i tanti malvagi che normalmente affliggono il mondo.
        Da questo rischio, nel caso, io sono stato miracolosamente esentato.  E visto che delle mie scelte di quegli anni resto ancora piuttosto convinto, mi fa piacere che i posteri, quando leggeranno di Lotta continua, possano sapere che io c’ero, e in età abbastanza matura da fare l’insegnante, e che non vi trovavo nulla da cui dissociarmi e non avevo alcuna particolare pretesa di preveggenza da avanzare.  E, naturalmente, che avevo le orecchie a sventola.

29.11.’98