C’è un raccontino dei primi anni ’60
– credo che sia opera di quello straordinario scrittore che è stato John
Rodolfo Wilcock – in cui si racconta di come Jean Paul Sartre, nonostante
il suo status di grande filosofo (o forse proprio per quello), sia tormentato
dal desiderio di sapere quale ricordo e giudizio su di lui potrebbero esprimere
i posteri. Per cui stipula il classico patto con il Demonio, che,
previo il consueto impegno di cessione dell’anima, gli concede di consultare
la più importante enciclopedia, mi sembra, dell’anno 2500. Nella
quale, allibito, il padre dell’esistenzialismo leggerà: “Sartre,
Jean Paul, filosofo e scrittore del secolo XX, personaggio probabilmente
di fantasia citato in un racconto di John Rodolfo Wilcock.”
È
una storiella divertente, ma oggi ve l’ho raccontata soprattutto perché
anche a me, nel mio piccolo, è capitato qualcosa del genere, e senza alcun
bisogno di vender l’anima a un diavolo che, con ogni probabilità, non
sarebbe interessato all’affare. Vedete, anche a me, come a Sartre,
non dispiace sapere cosa si dice e, possibilmente, si dirà su di me. Per
cui, quando esce un libro che parla di qualcosa con cui ho avuto a che
fare, o di qualche argomento di cui mi sono occupato o su cui ho scritto,
non so resistere alla tentazione di andare a controllare, ove siano presenti,
l’indice dei nomi e la bibliografia, per vedere se per caso non vi sono
citato. Di solito, naturalmente, la risposta è no. Però la
settimana scorsa, in libreria, mi è capitato sottomano un libro dall’aria
promettente, I ragazzi che volevano fare la rivoluzione – 1968-1978: storia
di Lotta continua, di Aldo Cazzullo, edito da Mondadori in una prestigiosa
collana di storia e memorialistica. Io di Lotta continua ho fatto
parte, anche se all’epoca non ero più un ragazzino, per cui mi sono affrettato
a consultare il ricco indice dei nomi. E ho scoperto che questa volta
– accidenti! – c’ero proprio. Per cui mi sono affrettato
a comperare il volume, me lo sono portato a casa un po’ trepidante e a
pagina 248 ho potuto leggere che alla rivista “Il pane e le rose”, promossa
da Nino Vento, Goffredo Fofi e Lidia Ravera, collaborava, tra gli altri,
“un insegnante milanese dalle orecchie a sventola, Carlo Oliva”. E
basta.
Lì
per lì, vi confesso, ci sono restato male. Non perché avessi nulla
da eccepire alla descrizione: in effetti sono milanese, in quegli anni
facevo l’insegnante, mi sono dato parecchio da fare con “Il pane e le
rose” e, quanto alle orecchie, non posso negare che protrudano dalla mia
scatola cranica con una certa insolita angolatura. Ma, insomma, non
nego che se avessero chiesto a me di definire il mio ruolo e la mia funzione
in Lotta continua sarei stato, diciamo, un po’ più prodigo di particolari.
Tutto il libro (che in sé mi è sembrato un tentativo particolarmente
onesto ed equilibrato di ricostruire una fase storica controversa e intricata
e che vi raccomando senza riserve) è intessuto di testimonianze in prima
persona, comprese quelle di taluni che, onestamente, in quell’organizzazione
hanno avuto una parte più modesta di quella, pur modestissima, che vi ho
avuto io. E non poteva questo Aldo Cazzullo, visto che c’era, venire
a interrogare anche me, invece di farsi raccontare da un altro di che forma
avevo (e ho) le orecchie?
Poi
ci ho riflettuto un po’ e l’irritazione mi è passata. E non solo
perché capisco anch’io che quella definizione è stata data in tono, tutto
sommato, affettuoso. Il fatto è che, leggendo quel libro, si scopre
che buona parte di quei miei compagni di allora che hanno avuto la ventura
di poter parlare di se stessi e di cosa hanno fatto o non hanno fatto in
quegli anni, ha ceduto, chi più chi meno, a una tentazione forse inevitabile,
ma un po’ antipatica. Hanno finito con il parlare, come si dice,
con il senno del poi. Hanno reinterpretato se stessi e la loro storia
con la consapevolezza, spesso amara, di quel che è successo dopo la fine
dell’esperienza di Lotta continua (e, in generale, della “nuova sinistra”):
con la consapevolezza del terrorismo, degli anni di piombo, della crisi
della politica, dello sconquasso ideologico degli anni ’80 e ’90. Il
che non significa che non siano stati, in grandissima maggioranza, sinceri,
o sinceramente disposti a dar ragione delle loro scelte di allora: fatto
sta che non è ovviamente possibile parlare del passato senza usare le categorie
e il sistema di valori del presente. Se è già difficile per lo storico
che lavora sui documenti e non ha, in linea di principio, responsabilità
personali nei fatti che racconta, figuriamoci quanto lo è per chi deve
esprimere, in sostanza, un giudizio su se stesso. È ben difficile
che non si sottolineino, delle proprie azioni, quegli aspetti che oggi,
diversamente da ieri, si sanno orientati nel senso della storia (se mi
passate l’espressione), enfatizzando le previsioni e le iniziative che
hanno avuto successo e lasciando discretamente nell’ombra quelle che si
sono rivelate fallimentari. Con il risultato che, nella memoria
dei protagonisti, qualsiasi vicenda controversa rischia di fare un po’
l’impressione, toccate pure ferro, di un cimitero, in cui le lapidi esaltano,
di ogni singolo ospite, la sapienza e la bontà, spingendo il visitatore
a chiedersi dove mai siano seppelliti i tanti imbecilli e i tanti malvagi
che normalmente affliggono il mondo.
Da
questo rischio, nel caso, io sono stato miracolosamente esentato. E
visto che delle mie scelte di quegli anni resto ancora piuttosto convinto,
mi fa piacere che i posteri, quando leggeranno di Lotta continua, possano
sapere che io c’ero, e in età abbastanza matura da fare l’insegnante,
e che non vi trovavo nulla da cui dissociarmi e non avevo alcuna particolare
pretesa di preveggenza da avanzare. E, naturalmente, che avevo le
orecchie a sventola.
29.11.’98