C’è un problemino semantico che mi tormenta da un paio di settimane, da
quando, cioè, ho eccezionalmente partecipato a una trasmissione di RP che
non fosse “La caccia”, ma uno di quei dialoghi telefonici con gli ascoltatori
organizzati in occasione della campagna abbonamenti, e non perché delle
compagne abbonamenti, vi giuro, in genere sia entusiasta, ma perché il
tema prescelto quest’anno, quello della tolleranza e della multiculturalità,
mi è sempre stato particolarmente caro. In fondo, da vecchio ammiratore
di Voltaire quale sono, ho sempre creduto e sostenuto che sulla tolleranza,
sul rispetto delle opinioni e delle costumanze altrui, si fondi la cultura
democratica moderna, quella cultura che, nonostante il discredito che oggi
è tanto di moda gettare sulle sue origini illuministiche, rappresenta l’unico
tentativo serio mai compiuto per impostare su basi non autoritarie il problema
della convivenza e dell’organizzazione sociale.
Ma appunto. Avrete notato che ho appena congiunto, in una specie
di endiadi automatica, la tolleranza e il rispetto degli altri, nel presupposto
implicito che l’una sia il presupposto dell’altro e viceversa. Ma
a una quantità di persone, evidentemente, l’accostamento non viene altrettanto
spontaneo. In pochi minuti di trasmissione hanno chiamato almeno
tre ascoltatori per dirci che loro a essere tollerati da noi o da altri
non ci tenevano affatto: che tollerassimo, piuttosto, le nostre sorelle.
Loro volevano essere rispettati, stimati e considerati per quello
che erano: in caso contrario non c’era tolleranza che tenesse e nemici
come prima.
Avranno avuto ragione loro, figuriamoci. Anch’io, se mi chiedessero
se preferisco essere rispettato o tollerato opterei per la prima ipotesi.
Può darsi che, a furia di sentir citare baggianate tipo “tolleranza
zero” i più abbiano scisso, nell’uso quotidiano, l’idea di tolleranza
da quella di rispetto, che ritengano, anzi, che l’idea stessa di “tollerare”
abbia in sé un qualcosa di sgradevolmente poco rispettoso, che comporti
una specie di affermazione implicita della propria superiorità (e dell’inferiorità
altrui). Io sono buono, civile, educato e quindi ti tollero, ma se
non righi dritto, se non fai quello che io ti dico di fare, stanne pur
certo, non ti tollererò più. In questo caso, “tolleranza” sarebbe
uno dei tanti termini di valore che, con gli anni, hanno subito, grazie
al loro stesso successo, una specie di logoramento semantico, allo stesso
titolo, diciamo, di “socialismo”, “democrazia” e persino “liberalismo”,
che una volta erano parole forti, in grado di suscitare odii e passioni
epiche e oggi sono soltanto delle etichette scolorite sotto cui si può
far passare di tutto. In questo caso, una frase come “non so che
farmene, io, della vostra tolleranza” fa esattamente il paio con quel
“al diavolo voi e la vostra democrazia liberale” che viene così
spontaneo sulle labbra di chi ascolti dibattiti o scambi di opinioni in
cui siano presenti esponenti della nostra ex sinistra.
A me però, forse perché, come dicevo prima,
resto un ammiratore del vecchio Voltaire e continuo a ritenere che
il Traité sur la tolérance del 1763 sia una delle opere fondamentali della
cultura mondiale, resta un dubbio. Chi avverte con fastidio la prospettiva
di essere “tollerato” si ribella, probabilmente, anche a quel tanto di
paternalistico, di gratuito che il termine sottintende. Il rispetto me
lo guadagno, me lo merito io, è una cosa mia che tu devi riconoscere;
la tolleranza me la dai tu, è una specie di regalo e io dei tuoi regali,
guarda, non so proprio che farmene. Che è giusto, ovviamente,
ma ha un limite. Da un lato chi ragiona così non ha capito che la
tolleranza è qualcosa che funziona solo se è reciproca (io tollero te e
viceversa, se no che razza di società tollerante sarebbe la nostra, visto
che anche tu ne fai parte?) E poi, che tutti, per quanto giustamente
orgogliosi, abbiamo comunque bisogno dei regali degli altri. Alla
libertà e all’uguaglianza non nuoce un po’ di fraternità. E poi
per rispettare qualcuno o qualcosa bisogna, innanzitutto, conoscerlo e
per conoscerlo bisogna averne frequentazione e come si fa a frequentare
qualcuno o qualcosa che non si conosce? La tolleranza, la decisione,
provvisoriamente unilaterale, di sospendere i propri pregiudizi verso l’altro,
ha appunto lo scopo di spezzare questo circolo vizioso. Da un gesto
di buona volontà bisogna, comunque, partire. E perché offendersene,
allora?
28.02.’99