(In)tolleranza

La caccia | Trasmessa il: 02/28/1999




C’è un problemino semantico che mi tormenta da un paio di settimane, da quando, cioè, ho eccezionalmente partecipato a una trasmissione di RP che non fosse “La caccia”, ma uno di quei dialoghi telefonici con gli ascoltatori organizzati in occasione della campagna abbonamenti, e non perché delle compagne abbonamenti, vi giuro, in genere sia entusiasta, ma perché il tema prescelto quest’anno, quello della tolleranza e della multiculturalità, mi è sempre stato particolarmente caro.  In fondo, da vecchio ammiratore di Voltaire quale sono, ho sempre creduto e sostenuto che sulla tolleranza, sul rispetto delle opinioni e delle costumanze altrui, si fondi la cultura democratica moderna, quella cultura che, nonostante il discredito che oggi è tanto di moda gettare sulle sue origini illuministiche, rappresenta l’unico tentativo serio mai compiuto per impostare su basi non autoritarie il problema della convivenza e dell’organizzazione sociale.

Ma appunto.  Avrete notato che ho appena congiunto, in una specie di endiadi automatica, la tolleranza e il rispetto degli altri, nel presupposto implicito che l’una sia il presupposto dell’altro e viceversa.  Ma a una quantità di persone, evidentemente, l’accostamento non viene altrettanto spontaneo.  In pochi minuti di trasmissione hanno chiamato almeno tre ascoltatori per dirci che loro a essere tollerati da noi o da altri non ci tenevano affatto: che tollerassimo, piuttosto, le nostre sorelle.   Loro volevano essere rispettati, stimati e considerati per quello che erano: in caso contrario non c’era tolleranza che tenesse e nemici come prima.

Avranno avuto ragione loro, figuriamoci.  Anch’io, se mi chiedessero se preferisco essere rispettato o tollerato opterei per la prima ipotesi.  Può darsi che, a furia di sentir citare baggianate tipo “tolleranza zero”  i più abbiano scisso, nell’uso quotidiano, l’idea di tolleranza da quella di rispetto, che ritengano, anzi, che l’idea stessa di “tollerare” abbia in sé un qualcosa di sgradevolmente poco rispettoso, che comporti una specie di affermazione implicita della propria superiorità (e dell’inferiorità altrui).  Io sono buono, civile, educato e quindi ti tollero, ma se non righi dritto, se non fai quello che io ti dico di fare, stanne pur certo, non ti tollererò più.  In questo caso, “tolleranza” sarebbe uno dei tanti termini di valore che, con gli anni, hanno subito, grazie al loro stesso successo, una specie di logoramento semantico, allo stesso titolo, diciamo, di “socialismo”, “democrazia” e persino “liberalismo”, che una volta erano parole forti, in grado di suscitare odii e passioni epiche e oggi sono soltanto delle etichette scolorite sotto cui si può far passare di tutto.  In questo caso, una frase come “non so che farmene, io, della vostra tolleranza” fa esattamente il paio con quel  “al diavolo voi e la vostra democrazia liberale” che viene così spontaneo sulle labbra di chi ascolti dibattiti o scambi di opinioni in cui siano presenti esponenti della nostra ex sinistra.

       A me però, forse perché, come dicevo prima, resto un ammiratore del vecchio  Voltaire e continuo a ritenere che il Traité sur la tolérance del 1763 sia una delle opere fondamentali della cultura mondiale, resta un dubbio.  Chi avverte con fastidio la prospettiva di essere “tollerato” si ribella, probabilmente, anche a quel tanto di paternalistico, di gratuito che il termine sottintende. Il rispetto me lo guadagno, me lo merito  io, è una cosa mia che tu devi riconoscere; la tolleranza me la dai tu, è una specie di regalo e io dei tuoi regali, guarda, non so proprio che farmene.    Che è giusto, ovviamente, ma ha un limite.  Da un lato chi ragiona così non ha capito che la tolleranza è qualcosa che funziona solo se è reciproca (io tollero te e viceversa, se no che razza di società tollerante sarebbe la nostra, visto che anche tu ne fai parte?)  E poi, che tutti, per quanto giustamente orgogliosi, abbiamo comunque bisogno dei regali degli altri.  Alla libertà e all’uguaglianza non nuoce un po’ di fraternità.  E poi per rispettare qualcuno o qualcosa bisogna, innanzitutto, conoscerlo e per conoscerlo bisogna averne frequentazione e come si fa a frequentare qualcuno o qualcosa che non si conosce?  La tolleranza, la decisione, provvisoriamente unilaterale, di sospendere i propri pregiudizi verso l’altro, ha appunto lo scopo di spezzare questo circolo vizioso.   Da un gesto di buona volontà bisogna, comunque, partire.  E perché offendersene, allora?


28.02.’99