Non è obbligatorio essere vegetariani
per amare la pace. Il mondo è pieno di persone pacifiche, uomini
e donne come me e voi, che mai si sognerebbero di torcere un capello agli
altri e non sopportano la vista di una goccia di sangue, sia pure versato
a fini chirurgici o terapeutici, e che pure si sentono autorizzati, a torto
o a ragione, a banchettare con le spoglie dei nostri fratelli animali,
senza lasciarsi in nulla turbare dall’idea della macellazione e delle
altre sgradevoli procedure cui quegli involontari fornitori di proteine
devono essere sottoposti. La contraddizione, va detto, è meno grave
di quanto sembri, perché la straordinaria capacità di categorizzazione
e ricategorizzazione che caratterizza la nostra vita mentale fa sì che,
nella coscienza quotidiana, la carne che si compra per uso alimentare sia
tutt’altra da quella da cui è composto il nostro corpo, per cui l’idea
stessa di morte, che tanto ci turba in relazione a noi e ai nostri cari,
ci appare sopportabilissima se riferita a quelle creature cui nessuna religione
finora ha concesso un’anima, ma merita lo stesso di essere evidenziata.
Anche se i pastori che si affollavano a Betlemme non allevavano
certo le pecorelle per risparmiare loro i disagi della vita selvatica,
il beccaio con il suo coltellaccio non è esattamente la figura che, sia
pure in questi tempi duri, qualcuno collocherebbe nel presepe.
“Pace”
e “macelleria”, insomma, non sembrerebbero concetti semanticamente contigui.
Pure, a Milano una macelleria dedicata alla pace c’è. Non
la frequento di persona, anche perché, senza essere vegetariano,
di carne ne mangio ormai poca, ma è ubicata qui a due passi dalla radio
e ci passo davanti tutte le volte che vengo in redazione. È un negozietto
a una sola luce, dall’aria abbastanza dimessa, come capita ancora nei
quartieri non proprio centrali, e non ci avrei mai badato, probabilmente,
se non fosse stato per quel nome insolito. Si chiama proprio così,
non si sbaglia, “Macelleria rosticceria alimentari ‘La Pace’”, e che
la denominazione non intenda il termine in senso generico, né alluda alla
pace dello spirito o a quella dei sensi, è garantito dalla presenza, nel
corpo dell’insegna, della bandiera a strisce multicolori del movimento
contro la guerra. I titolari, chiunque essi siano, non hanno voluto
che ci fossero dubbi sulle loro opzioni ideologiche: per la pace sono e
che sono per la pace hanno voluto che si sapesse. Il che me li rende
piuttosto simpatici, anche se non li conosco.
Non
li conosco, ma una cosa, su di loro, posso dedurla. Non devono essere,
questi miei e vostri compagni di strada, dei milanesi puro sangue. Il
loro negozio, normalissimo nell’aspetto, ha una particolarità, diciamo
così, culturale. È una macelleria rosticceria islamica, come se ne
trovano ormai parecchie nelle zone in cui sono insediate famiglie di immigrati
maghrebini. L’insegna è bilingue, metà in italiano metà in arabo
e in arabo sono un paio di scritte sulla vetrina. Io non so leggere
quella lingua, purtroppo, ma mi arrangio con il suo alfabeto quanto basta
per decifrare almeno la parola in caratteri grandi posta accanto alla bandiera.
C’è scritto proprio As-salam, “la pace”, un termine che nel mondo
arabo si usa anche come augurio e saluto, un saluto e un augurio che, evidentemente,
i titolari dell’esercizio hanno voluto rivolgere anche alla città che
li ospita. E questa intenzione, di cui sono grato, mi conforta parecchio.
Be’,
mi direte, ma che c’è di strano? Anche gli immigrati arabi, come
la maggior parte dei nostri concittadini, amano la pace e molti di loro
devono aver capito che in nome del relativo ideale ci si può e ci si deve
organizzare, il che spiega non solo la scelta del nome, ma anche la decisione
di illustrarlo con la bandiera, che è un riferimento, mi sembra, più pregnante
della solita colomba o del solito ramoscello di olivo. È vero. Ma
una cosa, lo ammetterete, è essere pacifici e pacifisti a casa propria
e una cosa esserlo in un ambiente, se non del tutto ostile, certo poco
propenso ad accogliere e far proprie le esigenze della multiculturalità,
come è ormai diventata la nostra città. E, diciamolo pure, non solo
la nostra città e la nostra regione, che pure ha la non piccola responsabilità
di aver dato origine al primo partito politico nato con il programma primario
di tenere al loro posto gli immigrati interni ed esterni.
Basta guardarsi intorno per vedere che
in Italia, dal punto di vista del rispetto delle identità altrui, tira
una gran brutta aria e non soltanto perché la Consulta ha deciso, giorni
fa, che non ci sono problemi nell’esposizione indiscriminata del Crocifisso
negli uffici pubblici e nelle scuole o perché il Ministro dell’Istruzione
ha esortato con apposita circolare i direttori didattici che ancora non
l’avessero fatto ad allestire senza indugio il presepe. La maggior
parte degli immigrati, probabilmente, non ha niente contro il Crocifisso
(temo dia più fastidio a me che a loro) e giurerei che ai loro bambini,
come a tutti i bambini che conosco, non spiace affatto il presepe (per
il quale, forse per un residuo di infantilismo, ammetto di avere un debole
anch’io), ma tutti loro sono vessati da una legge iniqua,che rende inutilmente
complicati e difficili i loro rapporti con l’autorità, e devono sperimentare
ogni giorno sulla propria pelle la diffidenza e l’ostilità di una società
che ha bisogno del loro lavoro, ma non intende affatto pagare il prezzo
relativo. Non sarà un caso – no? – se l’aggettivo
“islamico”, invece di essere usato per definire con il dovuto rispetto
un’identità culturale e religiosa, si impiega di solito come aggravante
del termine “terrorismo”. E se un’importante casa editrice propone,
solo per il periodo natalizio, in offerta speciale ai lettori, la trilogia
di Oriana Fallaci in cofanetto e ne fa pubblicità dappertutto. E
se il capo del governo, in visita di ossequio a Bush, afferma una volta
di più la volontà di affiancare quel tristo figuro nelle sue attività di
occupazione e di guerra. E se un membro responsabile del governo
cittadino, in questa civile Milano, commenta la notizia della giovane nomade
tagliata in due mentre cercava di prelevare un vestito usato da un cassonetto
dicendo che è inutile fare pietismi. E così via: gli esempi sono
infiniti e ciascuno può trovare i suoi.
In questo clima non esattamente festevole,
nonostante il calendario, qualsiasi segno di pace mi sembra degno di nota.
Per questo vi ho detto che quell’insegna, per quanto vagamente incongrua
e non del tutto al suo posto, un poco mi ha confortato. Fate come
me, prendetela per un augurio. Pace in terra agli uomini di buona
volontà, come dicevano quei tipi con le ali e l’aureola ai pastori in
visita alla mangiatoia.
19.12.’04