Inganni a senso unico

La caccia | Trasmessa il: 04/07/2002



Alle tante conseguenze nefaste di quello che sta succedendo oggi in Palestina, va aggiunto, e non se ne sentiva proprio il bisogno, il rischio di un ritorno di fiamma dell’antisemitismo in Europa.  E non importa se si tratta di un’eventualità, tutto sommato, remota, legata a pochi episodi isolati e ingigantita ad arte, se mai, da quanti, come i sostenitori, occulti o palesi, dell’attuale governo israeliano, sono avvezzi a sfruttare spregiudicatamente i sensi di colpa che la nostra coscienza collettiva prova, non senza motivo, nei riguardi dell’ebraismo.  La storia ci insegna che l’antisemitismo è una di quelle infezioni che dilagano anche sul terreno che più ne sembrava immune e quando cominciano i roghi delle sinagoghe, come in questi giorni in Francia e nel Belgio, vuol dire che il livello di guardia è stato, non che raggiunto, largamente superato.
        Che quel rischio sia reale, d’altronde, lo dimostra il fatto stesso che tanti tra noi lo avvertono nella propria coscienza.  Siamo tutti convinti, in astratto, che simpatizzare per la causa palestinese e detestare di tutto cuore il governo Sharon è un’opzione politica affatto legittima, condivisa persino da un certo numero (piccolo,  ma non irrilevante) di cittadini ebrei di Israele, ma di fronte alle reazioni che suscitano, oggi, l’arroganza e la prepotenza di quel governo, che reagisce al terrorismo con la tecnica della rappresaglia sulla popolazione civile, che non sarà la stessa cosa, ma non è neanche quella gran differenza, e per di più ne approfitta per cambiare unilateralmente le carte in tavola, trattati o non trattati, in molti di noi nasce una specie di paura improvvisa.  Temiamo che la nostra reazione sia viziata da una forma di antisemitismo latente.  Ci chiediamo se il fastidio che proviamo di fronte a uno stato sul cui rispetto per i diritti umani e sulla cui sincerità democratica ci sembra ci sia molto da ridire non possa essere, per avventura, una subdola manifestazione di quell’antico, esecrabile, vizio.  È un rovello che oggi tormenta una quantità di persone per bene, per la soddisfazione dei tanti tromboni che problemi del genere non se ne pongono, ma sono sempre pronti a denunciare le opinioni e le iniziative degli altri come esempi di “pacifismo a senso unico”.
        I problemi di coscienza, naturalmente, a senso unico non sono mai.  E se è sempre giusto cercare di fare un po’ di consapevolezza dentro di sé,  specialmente se si è cresciuti in un paese come il nostro, afflitto per secoli dall’egemonia culturale della chiesa cattolica, che in tema di rapporti con l’ebraismo ha le sue belle responsabilità, bisogna anche sforzarsi di reagire a quelli che finiscono per diventare dei veri e propri ricatti ideologici.   In fondo le ideologie, quella dell’antisemitismo compresa, sono state elaborate più per occultare i termini dei problemi che per chiarirli.  Provate a rileggere nella Storia notturna di Carlo Ginzburg il capitolo su come fu inventata, nella Francia del XIV secolo, la cosiddetta “congiura dei lebbrosi”, per definire e giustificare un progetto persecutorio che sarebbe stato ripetuto più volte ai danni di molti altri soggetti, a partire – appunto – dagli ebrei.   Quando si è decisi a fare qualcosa, non ci vuol molto per trovare delle giustificazioni, ma quelle giustificazioni non si identificano di necessità con le motivazioni effettive.  E oggi, di fronte a quegli episodi sconvolgenti e vergognosi, il dovere di tutti è quello di cercare di capirne, appunto, i motivi, di chiedersi per che cosa esattamente si sta combattendo da una parte e dall’altra.
        Io, personalmente, ho l’impressione che in quella tragedia l’antisemitismo non c’entri davvero un gran che.  In Palestina non è in corso né una guerra di razza, per quel che può significare in quel contesto il termine razza, né una guerra di “civiltà” (con le virgolette),  né, tantomeno, una guerra di religione.  Proviamo a lasciare perdere, per una volta, le rivendicazioni di valore degli uni e degli altri, a mettere tra parentesi l’eterno dibattito sulle opposte ragioni “storiche” delle due parti.  Tanto sappiamo benissimo tutti che entrambi, ormai, hanno il diritto di vivere su quella terra, anche gli israeliani, che, quali che fossero le loro motivazioni, ci sono giunti come coloni e l’hanno trasformata con il loro lavoro.  Ma questo non li autorizza, naturalmente, a creare uno stato fondato in gran parte sulla discriminazione, a negare i diritti degli altri, a riservarsi con la forza la parte migliore della terra e praticamente tutto il potere.  Perché è sulla terra, sul potere e sui diritti, e non su altro, che laggiù ci si scanna.
        È un conflitto, quello che contrappone israeliani e palestinesi (che non è la stessa cosa, vale la pena di continuare a ripeterlo, che dire “arabi e ebrei”), molto laico e, forse per questo, molto brutale.  Com’è molto laica, e anche abbastanza brutale, l’unica soluzione possibile: che in quelle poche miglia di territorio gli uni e gli altri imparino, prima o poi, a convivere da bravi fratelli, su un piede di parità.  E chi non vuole rassegnarsi a questa difficile, ma ragionevole, prospettiva, che può sembrare assurda come tutte le utopie, ma come capita spesso alle utopie rappresenta l’unica via percorribile, non ha alcun diritto di protestare se viene giudicato per le sue azioni.

07.04.’02