Confesso che, quando, la notte del 31
dicembre, ha cominciato a circolare la notizia dell’attacco a colpi di
treppiede al Presidente del Consiglio, non mi sono affrettato a scandalizzarmi
come tanti altri compagni preoccupati della rispettabilità della sinistra,
compresi, mi dicono, i conduttori della nostra radio. Sì, è una vita
che mi considero nonviolento, ma una volta accertata la pochezza dei danni
inferti e subiti e appurato che l’episodio rientrava più nei canoni dell’euforia
da alcool che in quelli della cospirazione politica, be’, mi era sembrato
che un mezzo sorriso ce lo si potesse permettere. Il principio per
cui qualsiasi trasgressione ai codici della morale va trattata con la stessa
severità, a prescindere dalla portata e dalle conseguenze, perché nulla
distingue, dal punto di vista etico, il furto di uno spillo dalla rapina
a Fort Knox, è uno di quei “paradossi degli stoici” sui quali già gli
antichi erano perplessi e che Cicerone, tra gli altri, ebbe modo di confutare.
E se non è il caso di presumere che abbia familiarità con Cicerone
gente come Bondi e Cicchitto, che su tesi del genere un poco si sono azzardati,
qualcosa di più avremmo potuto aspettarci dai leader della nostra coalizione,
almeno da quelli che vantano un titolo accademico. Ma probabilmente
erano tutti troppo occupati a discutere con Mastella.
Bondi
e Cicchitto, peraltro, nell’ansia di ribaltare sullo schieramento avverso
tutto la responsabilità di quel povero episodio, hanno evocato l’immagine
di una sinistra talmente accecata dall’odio antiberlusconiano da cadere
preda di una vera e propria coazione al male, di una sorta di irresistibile
frenesia di nuocere. Ora, non c’è chi non veda quanto questa interpretazione
sia lontana dalla realtà. La sinistra sarà anche accecata dall’antipatia
per il Cavaliere – e, francamente, è difficile darle torto – ma l’unico
male che riesce a produrre ogni volta è quello che fa a se stessa. L’atteggiamento
generale dell’ulivista medio in materia, se permettete, mi sembra pericolosamente
simile a quello dello stesso aggressore di piazza Navona, che, svaniti
i fumi dell’alcool, è passato in un amen dal virile “Io l’odio” con
cui aveva, all’inizio, motivato il suo gesto, a quel flebile “Non so
cosa mi ha preso, mi scusi” che ha offerto all’uomo di Arcore la preziosa
occasione di mostrarsi, ancora una volta, magnanimo. Perché, sarà
un caso, ma ogni volta che si manifestano frizioni di questo tipo, lui
ne esce sempre benissimo e noi restiamo, qual più qual meno, in braghe
di tela.
Certo,
a ciò ci aiutano in molti. Per esempio quel magistrato che, pur rivestendo
qualche responsabilità negli organi rappresentativi della sua corporazione
e pur essendosi abbastanza esposto, in passato, nelle polemiche con il
governo, ha sentito, pare, il bisogno di trasmettere ad amici e conoscenti
non so quale sms in cui si scherzava sul fatto. E il problema, naturalmente,
non sta nello scherzo, che è sempre lecito (e poi potrebbe aver letto Cicerone
anche lui), ma nella scelta dei destinatari, uno dei quali, evidentemente,
doveva essere abbastanza infido da girare seduta stante quel testo a un
deputato di AN, con tutte le conseguenze del caso. Basterebbe un
errore di valutazione del genere per farci concordare con quanti hanno
consigliato a quel giudice di dare alla svelta le dimissioni. Ma
non sembra, ahimè, che abbia intenzione di farlo, né che gli siano giunti,
da parte degli oppositori del ministro Castelli, consigli in tal senso.
La magistratura, si sa, non sbaglia mai. In che mani siamo
caduti, amici, in che mani.
09.01.’05