Pietro Valpreda, nelle cronache d’epoca,
veniva comunemente definito un “ballerino” e, in effetti, al mondo dello
spettacolo musicale non era estraneo. Ma questa attività non esauriva
certo le sue opzioni professionali, come si sarebbe visto negli anni a
venire. Sappiamo tutti che, in seguito, ha gestito un locale in corso
Garibaldi e che dopo essere andato in pensione si è dedicato alla letteratura.
Oggi come oggi lo si può considerare a buon diritto uno scrittore
di gialli. Ricorderete forse che della sua prima opera, Tre giorni
a luglio, del ’97, ho avuto occasione di parlarvi a suo tempo. Alla
seconda, Quater gott d’acqua piovana, Pietro sta dando attualmente gli
ultimi tocchi, ma io ho avuto il privilegio di scorrerne il manoscritto
e posso assicurarvi fin d’ora che merita di essere letta. Ne parleremo
quanto prima in sede opportuna.
Valpreda,
giallisticamente parlando, non è un modernista. I suoi romanzi non
mancano di originalità, nell’ambientazione e nella caratterizzazione dei
personaggi, ma si rifanno abbastanza tranquillamente alla tradizione del
whodunit, del giallo a enigma, quello che ruota attorno a un mistero che
il lettore è chiamato a risolvere insieme al protagonista. Diciamo
che più che a un James Ellroy o a un Andrea G. Pinketts è vicino ad Agatha
Christie, a Ellery Queen e agli altri autori che eccellono per la capacità
di inserire nella narrazione, con intelligente parsimonia, quegli indizi
capaci di guidare, o, più spesso, di depistare il lettore curioso.
Nemmeno
Agatha Christie, però, avrebbe avuto il coraggio di utilizzare un “indizio”
che, nella vicenda giudiziaria di Valpreda (nella persecuzione giudiziaria
di Valpreda) ha avuto una certa importanza. Nessun autore di gialli
avrebbe affidato la possibilità d’inchiodare il colpevole di una delle
sue trame al “vetrino” che apparve, per poi scomparire, nella prima fase
delle indagini sulle bombe di Milano.
Non
so se qualcuno ricorda la storia del vetrino di Valpreda. Io, lo
confesso, l’avevo dimenticata: mi è tornata in mente solo perché me l’ha
ricordata Felice, che sa dei miei interessi per queste cose. È una
storia che parte con il rinvenimento, alle 16, 25 di quel 12 dicembre ’69,
nella sede centrale della Banca Commerciale di Milano, in piazza della
Scala, di una borsa di colore nero contenente una cassetta metallica. Nella
cassetta, si scoprirà, c’è una bomba, simile, presumibilmente, a quella
che cinque minuti dopo avrebbe fatto strage in piazza Fontana. Dei
cinque attentati di quel giorno (tre a Roma, due a Milano) uno, evidentemente,
era fallito.
Un
colpo di fortuna, in quel giorno disgraziato, e un aiuto insperato per
gli investigatori. Disponendo di un ordigno inesploso e del contenitore
usato per trasportarlo, nel ragionevole presupposto di un collegamento
tra l’attentato mancato e quelli riusciti, potranno ricavarne chissà quanti
elementi essenziali per le indagini. Potranno determinare il tipo
e la quantità di esplosivo e le caratteristiche del meccanismo d’innesco,
risalendo, così, a chi aveva la possibilità di disporre di quell’esplosivo
in quelle dosi e di quei meccanismi. Forse, con un po’ di fortuna,
troveranno qualche impronta digitale. La verità, per un caso del
destino, potrebbe essere a portata di mano.
Be’,
come sappiamo, non sarebbe successo niente del genere. Qualcuno decide
che la bomba della Commerciale è pericolosa e va fatta brillare all’istante.
Il perito artificiere incaricato non è d’accordo (lo scriverà nella
sua relazione), a Pavia e a Brescia esistono delle strutture militari perfettamente
in grado di prendere in consegna l’ordigno e disinnescarlo, a Brescia
– anzi – si dichiarano subito disponibili, ma non importa. La bomba
viene fatta esplodere direttamente nel cortile della banca. Nella
fretta ci si dimentica persino di pesarla, precludendosi la possibilità
di sapere quanto esplosivo è stato utilizzato. Indizi, informazioni,
impronte vanno, letteralmente, in fumo.
Resta,
naturalmente, la borsa. È di produzione tedesca, di un tipo venduto,
in Italia, solo in pochi negozi, il cui elenco è disponibile presso la
fabbrica. Non ci vorrebbe molto per indagare su chi ne ha acquistato
recentemente un lotto. Ma una ricerca del genere avrebbe senso solo
se servisse a scoprire chi ha preparato ed effettuato gli attentati e questo
gli inquirenti lo sanno già dopo pochissimi giorni. Sono stati gli
anarchici e, in particolare, Valpreda. E allora, perché sciupare
del tempo? Le avrà comperate lui o qualcuno per lui. Visto
che l’informazione che potrebbe fornire la si sa già, tecnicamente quella
borsa non è un indizio.
Però
è un peccato lasciare inutilizzato un reperto tanto ghiotto. E così
dalla borsa salta fuori il vetrino. Quando non lo si sa, perché il
verbale relativo è datato 14 dicembre ‘99, ma per qualche motivo non è
redatto sull’apposito modulo, ma su un foglietto volante scritto a mano,
e l’elemento entrerà in istruttoria solo quando verrà l’interrogato,
il 16 luglio 1970 il dottor Russomanno, inviato speciale del Ministero
degli Interni. In quella data (quando ormai Valpreda era stato arrestato,
identificato, e promosso al ruolo di “mostro”) il dottor Russomanno avrebbe
raccontato al giudice Occorsio di aver esaminato la borsa insieme
al commissario Zagari e che costui, nello scorrerne il fondo con le dita,
vi aveva notato “la presenza di un frammento di sostanza sconosciuta”,
che a lui era sembrato un grumo di colla, ma che l’altro aveva subito
individuato per un “cristallo in senso minerario”. Insomma, un
pezzo di vetro. E il giudice istruttore, desideroso di conferme,
avrebbe riesaminato personalmente la borsa, “provvedendo anche al distacco
del cartone incollato sul fondo stesso”, per scoprire che, pur a sette
mesi di distanza, vi erano ancora celati certi “ minuti frammenti di sostanze
vetrose e metalliche”, che si sarebbe provveduto a “repertare”.
E
che c’entrano con le bombe – chiederete voi – dei minuti frammenti di
sostanze vetrose e metalliche? Be’, c’entrano, soprattutto
se si sa (e gli investigatori lo sanno) che Valpreda, tra le sue molteplici
attività, aveva anche quella di produttore artigiano di lampade modello
Tiffany. E siccome le lampade Tiffany sono composte da frammenti
di vetro colorato saldati tra loro da strisce di piombo, nulla di più naturale
che di vetri e piombini in casa Valpreda ne girassero a iosa. Insomma,
l’assassino, come in ogni giallo che si rispetti, ha lasciato la firma.
In un periodo in cui sulla colpevolezza degli anarchici cominciano
a serpeggiare dei dubbi, non sono pochi i giornalisti di regime che intitoleranno
i loro pezzi in quel senso.
Ahimè.
Di tutta questa costruzione non sarebbe restata traccia né nei rinvii
a giudizio né nelle sentenze. Il vetrino, a un certo punto sarebbe
sparito dagli atti una volta per tutte. E se ne capisce anche il
motivo: un indizio può servire a qualcosa in un giallo (anche se Hercule
Poirot, già in un racconto del 1922, ironizzava su quei colpevoli tanto
cortesi da lasciare in loco guanti, nettapipe e portasigarette cifrati),
ma nel concreto può essere imbarazzante. Per servirsene bisogna saper
ipotizzare le circostanze in cui e per cui qualcuno l’ha portato sul luogo
del delitto e ce l’ha lasciato. E l’unica ipotesi praticabile,
nel nostro caso, è quella di un dinamitardo pasticcione, che, avendo acquistato
un certo numero di borse in cui collocare i suoi ordigni, se ne serve anche
per trasportare gli oggetti che utilizza per la sua attività di artigiano
ed è tanto distratto da dimenticarcene uno. Può succedere di tutto,
eh (l’accusa è la stessa che ha ipotizzato che Valpreda a collocare la
bomba alla Banca dell’Agricoltura ci sia andato in taxi, prendendolo,
però, a trecento metri di distanza dalla meta), ma l’idea, a quanto pare,
non convince. E chi s’intende di queste cose capisce che il vetrino,
prima o poi, è destinato a sparire. Sparirà, per la precisione, quando
il PM dovrà bocciare una denuncia di falso presentata dalla difesa contro
la polizia, visto che nessuna analisi di laboratorio era riuscita a trovare
il minimo rapporto tra quel “cristallo in senso minerario” e il materiale
vetroso sequestrato in casa di Valpreda, e per farlo non troverà di meglio
che scrivere che quell’oggetto come prova non conta niente e quindi perché
mai qualcuno avrebbe dovuto falsificarlo? E per spiegare come mai,
comunque, lo si era trovato farà presente che in quella famosa borsa, “dopo
il rinvenimento, furono raccolti alcuni reperti del brillamento dell’ordigno
esploso nel giardino della Comit” per cui il vetrino potrebbe anche esservi
finito “attaccato a qualche reperto”. All’ipotesi del dinamitardo
inetto, cioè, si sarebbe sostituita quella dei poliziotti pasticcioni,
che usano una prova importante come fosse un sacchetto di supermarket e
non ricordano neanche che cosa ci hanno messo dentro. I due scenari,
simmetrici, ma di segno opposto, sono ovviamente destinati a elidersi.
E così è stato.
Ma questa, naturalmente, non è una spiegazione.
Di “prove” che non valgono la carta usata per involtarle sono piene
le inchieste di quegli anni e dei successivi (tanto è vero che a un certo
punto ci si inventeranno i pentiti e della necessità di fornire delle prove
si farà a meno una volta per tutte). Il fatto è che, al momento del
rinvio a giudizio, nel ’71, l’ipotesi Valpreda ormai cominciava a far
acqua da tutte le parti. Il materiale che emergeva via via dalle
varie controinchieste e che sarebbe stato ben presto ripreso dalle indagini
della magistratura di Treviso, spostava inevitabilmente l’attenzione altrove.
E quell’esigua, contradditoria, cialtronesca prova materiale,
predisposta evidentemente chissà da chi nella prospettiva di un’inchiesta
molto più lineare, molto più concentrata sulle “belve anarchiche”, ormai
non poteva che dare fastidio.
Ma provate a pensare che cosa sarebbe
successo se tutto fosse andato come era stato previsto che andasse. Quel
vetrino, per quanto futile e insignificante fosse la sua presenza, sarebbe
ancora lì, solido, granitico attestato della colpevolezza di un ballerino
anarchico che, in mancanza di scritture, si guadagnava da vivere fabbricando
lampade di vetro colorato. La sua presenza non avrebbe retto a un’analisi
appena seria, è vero, ma chi mai si prende la briga – diciamocelo – di
analizzare le sentenze? D’altronde, sappiamo bene tutti che non
ce n’è mai un vero bisogno. Nei processi politici, da che mondo
è mondo, l’unico fattore che spiega davvero le condanne è la volontà del
potere di irrogarle, al di là della buona fede dei magistrati e degli inquirenti
e della credibilità degli elementi di accusa. A meno, naturalmente,
che qualcuno non riesca a impedirglielo.
Come, in questo caso, per una volta,
siamo riusciti a fare.
12.12.’99