Il vetrino di Valpreda

La caccia | Trasmessa il: 12/12/1999



Pietro Valpreda, nelle cronache d’epoca, veniva comunemente definito un “ballerino” e, in effetti, al mondo dello spettacolo musicale non era estraneo.  Ma questa attività non esauriva certo le sue opzioni professionali, come si sarebbe visto negli anni a venire.  Sappiamo tutti che, in seguito, ha gestito un locale in corso Garibaldi e che dopo essere andato in pensione si è dedicato alla letteratura.  Oggi come oggi lo si può considerare a buon diritto uno scrittore di gialli.  Ricorderete forse che della sua prima opera, Tre giorni a luglio, del ’97, ho avuto occasione di parlarvi a suo tempo.  Alla seconda, Quater gott d’acqua piovana, Pietro sta dando attualmente gli ultimi tocchi, ma io ho avuto il privilegio di scorrerne il manoscritto e posso assicurarvi fin d’ora che merita di essere letta.  Ne parleremo quanto prima in sede opportuna.
        Valpreda, giallisticamente parlando, non è un modernista.  I suoi romanzi non mancano di originalità, nell’ambientazione e nella caratterizzazione dei personaggi, ma si rifanno abbastanza tranquillamente alla tradizione del whodunit, del giallo a enigma, quello che ruota attorno a un mistero che il lettore è chiamato a risolvere insieme al protagonista.  Diciamo che più che a un James Ellroy o a un Andrea G. Pinketts è vicino ad Agatha Christie, a Ellery Queen e agli altri autori che eccellono per la capacità di inserire nella narrazione, con intelligente parsimonia, quegli indizi capaci di guidare, o, più spesso, di depistare il lettore curioso.
        Nemmeno Agatha Christie, però, avrebbe avuto il coraggio di utilizzare un “indizio” che, nella vicenda giudiziaria di Valpreda (nella persecuzione giudiziaria di Valpreda) ha avuto una certa importanza.  Nessun autore di gialli avrebbe affidato la possibilità d’inchiodare il colpevole di una delle sue trame al “vetrino” che apparve, per poi scomparire, nella prima fase delle indagini sulle bombe di Milano.
        Non so se qualcuno ricorda la storia del vetrino di Valpreda.  Io, lo confesso, l’avevo dimenticata: mi è tornata in mente solo perché me l’ha ricordata Felice, che sa dei miei interessi per queste cose.  È una storia che parte con il rinvenimento, alle 16, 25 di quel 12 dicembre ’69, nella sede centrale della Banca Commerciale di Milano, in piazza della Scala, di una borsa di colore nero contenente una cassetta metallica.  Nella cassetta, si scoprirà, c’è una bomba, simile, presumibilmente, a quella che cinque minuti dopo avrebbe fatto strage in piazza Fontana.  Dei cinque attentati di quel giorno (tre a Roma, due a Milano) uno, evidentemente, era fallito.
        Un colpo di fortuna, in quel giorno disgraziato, e un aiuto insperato per gli investigatori.  Disponendo di un ordigno inesploso e del contenitore usato per trasportarlo, nel ragionevole presupposto di un collegamento tra l’attentato mancato e quelli riusciti, potranno ricavarne chissà quanti elementi essenziali per le indagini.  Potranno determinare il tipo e la quantità di esplosivo e le caratteristiche del meccanismo d’innesco, risalendo, così, a chi aveva la possibilità di disporre di quell’esplosivo in quelle dosi e di quei meccanismi.  Forse, con un po’ di fortuna, troveranno qualche impronta digitale.  La verità, per un caso del destino, potrebbe essere a portata di mano.
        Be’, come sappiamo, non sarebbe successo niente del genere.  Qualcuno decide che la bomba della Commerciale è pericolosa e va fatta brillare all’istante.  Il perito artificiere incaricato non è d’accordo (lo scriverà nella sua relazione), a Pavia e a Brescia esistono delle strutture militari perfettamente in grado di prendere in consegna l’ordigno e disinnescarlo, a Brescia – anzi – si dichiarano subito disponibili, ma non importa.  La bomba viene fatta esplodere direttamente nel cortile della banca.  Nella fretta ci si dimentica persino di pesarla, precludendosi la possibilità di sapere quanto esplosivo è stato utilizzato.  Indizi, informazioni, impronte vanno, letteralmente, in fumo.
        Resta, naturalmente, la borsa.  È di produzione tedesca, di un tipo venduto, in Italia, solo in pochi negozi, il cui elenco è disponibile presso la fabbrica.  Non ci vorrebbe molto per indagare su chi ne ha acquistato recentemente un lotto.  Ma una ricerca del genere avrebbe senso solo se servisse a scoprire chi ha preparato ed effettuato gli attentati e questo gli inquirenti lo sanno già dopo pochissimi giorni.  Sono stati gli anarchici e, in particolare, Valpreda.  E allora, perché sciupare del tempo?  Le avrà comperate lui o qualcuno per lui.  Visto che l’informazione che potrebbe fornire la si sa già, tecnicamente quella borsa non è un indizio.
        Però è un peccato lasciare inutilizzato un reperto tanto ghiotto.  E così dalla borsa salta fuori il vetrino.  Quando non lo si sa, perché il verbale relativo è datato 14 dicembre ‘99, ma per qualche motivo non è redatto sull’apposito modulo, ma su un foglietto volante scritto a mano, e l’elemento entrerà in istruttoria solo quando verrà l’interrogato, il 16 luglio 1970 il dottor Russomanno, inviato speciale del Ministero degli Interni.  In quella data (quando ormai Valpreda era stato arrestato, identificato, e promosso al ruolo di “mostro”) il dottor Russomanno avrebbe raccontato al giudice Occorsio  di aver esaminato la borsa insieme al commissario Zagari e che costui, nello scorrerne il fondo con le dita, vi aveva notato “la presenza di un frammento di sostanza sconosciuta”, che a lui era sembrato un grumo di colla, ma che l’altro aveva subito individuato per un “cristallo in senso minerario”.  Insomma, un pezzo di vetro.  E il giudice istruttore, desideroso di conferme, avrebbe riesaminato personalmente la borsa, “provvedendo anche al distacco del cartone incollato sul fondo stesso”, per scoprire che, pur a sette mesi di distanza, vi erano ancora celati certi “ minuti frammenti di sostanze vetrose e metalliche”, che si sarebbe provveduto a “repertare”.
        E che c’entrano con le bombe – chiederete voi – dei minuti frammenti di sostanze vetrose e metalliche?  Be’, c’entrano,  soprattutto se si sa (e gli investigatori lo sanno) che Valpreda, tra le sue molteplici attività, aveva anche quella di produttore artigiano di lampade modello Tiffany.  E siccome le lampade Tiffany sono composte da frammenti di vetro colorato saldati tra loro da strisce di piombo, nulla di più naturale che di vetri e piombini in casa Valpreda ne girassero a iosa.  Insomma, l’assassino, come in ogni giallo che si rispetti, ha lasciato la firma.  In un periodo in cui sulla colpevolezza degli anarchici cominciano a serpeggiare dei dubbi, non sono pochi i giornalisti di regime che intitoleranno i loro pezzi in quel senso.
        Ahimè.  Di tutta questa costruzione non sarebbe restata traccia né nei rinvii a giudizio né nelle sentenze.  Il vetrino, a un certo punto sarebbe sparito dagli atti una volta per tutte.  E se ne capisce anche il motivo: un indizio può servire a qualcosa in un giallo (anche se Hercule Poirot, già in un racconto del 1922, ironizzava su quei colpevoli tanto cortesi da lasciare in loco guanti, nettapipe e portasigarette cifrati), ma nel concreto può essere imbarazzante.  Per servirsene bisogna saper ipotizzare le circostanze in cui e per cui qualcuno l’ha portato sul luogo del delitto e ce l’ha lasciato.  E l’unica ipotesi praticabile, nel nostro caso, è quella di un dinamitardo pasticcione, che, avendo acquistato un certo numero di borse in cui collocare i suoi ordigni, se ne serve anche per trasportare gli oggetti che utilizza per la sua attività di artigiano ed è tanto distratto da dimenticarcene uno.  Può succedere di tutto, eh (l’accusa è la stessa che ha ipotizzato che Valpreda a collocare la bomba alla Banca dell’Agricoltura ci sia andato in taxi, prendendolo, però, a trecento metri di distanza dalla meta), ma l’idea, a quanto pare, non convince.  E chi s’intende di queste cose capisce che il vetrino, prima o poi, è destinato a sparire.  Sparirà, per la precisione, quando il PM dovrà bocciare una denuncia di falso presentata dalla difesa contro la polizia, visto che nessuna analisi di laboratorio era riuscita a trovare il minimo rapporto tra quel “cristallo in senso minerario” e il materiale vetroso sequestrato in casa di Valpreda, e per farlo non troverà di meglio che scrivere che quell’oggetto come prova non conta niente e quindi perché mai qualcuno avrebbe dovuto falsificarlo?  E per spiegare come mai, comunque, lo si era trovato farà presente che in quella famosa borsa, “dopo il rinvenimento, furono raccolti alcuni reperti del brillamento dell’ordigno esploso nel giardino della Comit” per cui il vetrino potrebbe anche esservi finito “attaccato a qualche reperto”.  All’ipotesi del dinamitardo inetto, cioè, si sarebbe sostituita quella dei poliziotti pasticcioni, che usano una prova importante come fosse un sacchetto di supermarket e non ricordano neanche che cosa ci hanno messo dentro.   I due scenari, simmetrici, ma di segno opposto, sono ovviamente destinati a elidersi.  E così è stato.
Ma questa, naturalmente, non è una spiegazione.  Di “prove” che non valgono la carta usata per involtarle sono piene le inchieste di quegli anni e dei successivi (tanto è vero che a un certo punto ci si inventeranno i pentiti e della necessità di fornire delle prove si farà a meno una volta per tutte).  Il fatto è che, al momento del rinvio a giudizio, nel ’71, l’ipotesi Valpreda ormai cominciava a far acqua da tutte le parti.  Il materiale che emergeva via via dalle varie controinchieste e che sarebbe stato ben presto ripreso dalle indagini della magistratura di Treviso, spostava inevitabilmente l’attenzione altrove.  E quell’esigua, contradditoria, cialtronesca  prova materiale, predisposta evidentemente chissà da chi nella prospettiva di un’inchiesta molto più lineare, molto più concentrata sulle “belve anarchiche”, ormai non poteva che dare fastidio.
Ma provate a pensare che cosa sarebbe successo se tutto fosse andato come era stato previsto che andasse.  Quel vetrino, per quanto futile e insignificante fosse la sua presenza, sarebbe ancora lì, solido, granitico attestato della colpevolezza di un ballerino anarchico che, in mancanza di scritture, si guadagnava da vivere fabbricando lampade di vetro colorato.  La sua presenza non avrebbe retto a un’analisi appena seria, è vero, ma chi mai si prende la briga – diciamocelo – di analizzare le sentenze?  D’altronde, sappiamo bene tutti che non ce n’è mai un vero bisogno.  Nei processi politici, da che mondo è mondo, l’unico fattore che spiega davvero le condanne è la volontà del potere di irrogarle, al di là della buona fede dei magistrati e degli inquirenti e della credibilità degli elementi di accusa.  A meno, naturalmente, che qualcuno non riesca a impedirglielo.
Come, in questo caso, per una volta, siamo riusciti a fare.

12.12.’99