Strane cose si leggono, a volte, sui
quotidiani nazionali. Su “Repubblica” di lunedì, per esempio, in
prima pagina taglio basso, Marco Lodoli, ci invita – senza apparente motivo
– ad entrare nella classe di una scuola di periferia. Acconsentiamo
volentieri, ma scopriamo subito che non vi sta succedendo nulla di straordinario.
“Il professore vorrebbe interrogare un’allieva, due domandine su
un racconto di Maupassant letto nella lezione precedente, niente di difficile”
e “la ragazza si rifiuta tassativamente di farsi interrogare.” Il
docente insiste, vuole sapere i motivi di quel rifiuto (“non ha studiato,
non ricorda, pensa di essere più pronta l’indomani?”) e quella è sempre
meno collaborativa. Insomma, una situazione di stallo, finché la
ragazza non cede e sbotta che lei a venire alla cattedra non ci pensa nemmeno
perché non vuole “soffrire neanche un minuto”. E spiega che nessuno,
oggi, vuole più soffrire:non se ne è forse accorto quel rompiscatole del
professore?
Tutto
qui, eh, non c’è altro e mi direte voi se valeva la pena di scriverci
su un articolo di giornale. Personalmente, in venticinque anni di
scuola, di allieve riluttanti di quel tipo ne avrò conosciute, a occhio,
due o tre centinaia. E le motivazioni, stringi stringi, erano sempre
la stessa: non l’impreparazione, che quella non la si dichiara mai, ma
uno stato – appunto – di sofferenza, effettiva o potenziale. Mal
di testa, complicazioni familiari, delusioni amorose, mestruazioni incipienti,
dubbi esistenziali, fragilità psicologiche… devo averne sentite, come
qualsiasi insegnante, praticamente di ogni. L’unica che non mi è
mai stata proposta così, nuda e cruda, è proprio quella che pure potrebbe
unificare tutti quei casi specifici: la volontà, appunto, di non soffrire.
Non
credo, d’altronde, che se la sia sentita enunciare in quei termini nemmeno
l’imprecisato collega di quella imprecisata scuola di periferia. Se
fosse accaduto davvero, la ragazza (pur imprecisata anche lei) meriterebbe
di essere additata quale esempio di schiettezza e sincerità, come, per
una risposta assai meno eclatante, capitò a George Washington. E
anche se Lodoli non spiega come sia andata a finire, se con un “va bene
resti pure dov’è” o con un due sul registro, è ovvio che chi ha il fegato
di rispondere in quei termini, in genere, spiazza l’interlocutore al punto
da avere parecchie probabilità di farla franca. Una giovane genia,
dunque, una di quelle studentesse che a scuola possono permettersi di fare
quello che vogliono, perché, tanto, non hanno proprio nulla da imparare.
Ma,
in realtà, l’episodio puzza assai di inventato. E di inventato per
permettere all’articolista di scaricare sul lettore le considerazioni
che, di fatto, gli fa seguire. Lo si capisce persino dal titolo generalizzante
“Se i ragazzi non sanno più soffrire” e dall’occhiello, per cui le parole
di quella giovane sono “il simbolo della nostra società”. Non
si tratta solo di cogliere facili agganci con l’attualità, scrivendo che
“in fondo questo deve essere lo stesso pensiero che ha portato i quattro
studenti del Parini … ad allagare la scuola.” No, l’ambizione
è più alta: nelle parole della presunta renitente l’autore legge, addirittura,
“la verità centrale della nostra civiltà, ciò che prima l’ha resa così
straordinaria e ora la rende così fragile.” Perché, a suo dire,
“contro la crudeltà della Natura, contro la violenza degli uomini” i
nostri maggiori hanno inventato “l’anestesia, lo stato sociale, il tempo
libero, il divorzio e l’aborto, le medicine, il cinema e la televisione,
i centri anziani e le ferie, i bar e il campionato di calcio, il laicismo
e il diritto al piacere”, un modello, insomma, di società analgesica ed
edonistica (anche se non si capisce cosa c’entri il laicismo), un modello
che adesso “traballa per lo stesso motivo per cui si è imposto.” Come
a dire che “la nostra capacità di sopportare le difficoltà, di raccogliere
le energie di fronte a una piccola salita, di pretendere qualcosa di più
da uno sforza anche esiguo, ormai si sta esaurendo,” con il risultato
che noi, figli di questa età imbelle, “diventiamo deboli e la sofferenza
se ne accorge e torna in forme nuove a minacciare quanto di buono è stato
costruito” e, insomma, occhio ragazzi che mal ce ne incoglierà a tutti.
Niente
di più ragionevole, a prima vista. E niente di nuovo, visto che l’idea
per cui bisogna saper affrontare il dolore, perché nella capacità di interiorizzarlo,
di dominarlo sta la radice di ogni forza morale, è alla base di una delle
ipotesi più fortunate della storia dell’etica, quella stoica, che domina
incontrastata il pensiero occidentale almeno dal IV secolo a.C. e che è
riuscita a sopravvivere alla grande a qualsiasi trasformazione culturale
e religiosa, compreso l’avvento del Cristianesimo. L’ipotesi concorrente,
quella che si richiama al nome del grande Epicuro e vede il dolore come
qualcosa da cui è opportuno stare quanto possibile alla larga, sarà forse
più fondata nell’esperienza (in fondo, in natura, il dolore è stato inventato
appunto perché ne evitiamo le cause), ma ha sempre avuto meno fortuna con
i dotti. E meno ancora, va detto, con i potenti, perché compagna
ineliminabile della sofferenza, si sa, è la paura e un mondo retto dalla
paura è molto più facile da governare di uno in cui quel sentimento sia
poco (o punto) diffuso. Anche se non è da tutti saper dominare il
dolore, la morale stoica ha avuto il successo che ha avuto perché è sempre
stata, in un certo senso, una morale a due livelli: il saggio ci riesce
con le proprie forze (ed è abilitato a comandare), i meno saggi sono aiutati
nella difficile ricerca del bene dalla paura di ricevere una dose maggiore
delle prescritte legnate (e così gli tocca, ovviamente, ubbidire). Gli
epicurei insegnavano a eludere il dolore mediante la ricerca della verità,
ma quella, suvvia, era una morale da uomini liberi, una dottrina pericolosa,
da scoraggiare, com’è stata scoraggiata, di fatto, con la paura dell’inferno
e, se necessario, del rogo.
Sono
anche queste, me ne rendo conto, considerazioni banali. Ma provate
a rileggere alla loro luce l’episodietto riportato (o inventato) su “Repubblica”.
Quello che irrita davvero il professore dell’apologo, se ci pensate,
è il non riuscire a mettere paura alla sua allieva. D’altronde,
questa è una problematica ben nota a chi abbia qualche pratica di insegnamento:
era la crisi di quello strumento didattico principe, lo scoprirsi di un
tratto incapaci di fare paura, che mandava in bestia i miei colleghi quando,
negli anni della contestazione studentesca, muovevo i primi passi in quella
carriera ed è nel tentativo di rimettere in mano ai docenti quell’arma
che è consistita la trentennale opera di restaurazione che, da una “riforma”
all’altra ha portato la scuola italiana nelle condizioni in cui è adesso.
Perché se no, invece di discettare sulla decadenza morale delle giovani
generazioni (un argomento con cui i moralisti ce la menano dagli anni del
neolitico superiore) l’autore avrebbe potuto utilmente interrogarsi sul
perché mai, in una scuola funzionante secondo logica, una interrogazione
dovrebbe fare soffrire. L’apprendimento (un processo complicato,
di cui possono far parte, a volte, le verifiche) dovrebbe essere un percorso
gioioso e cosa ci potrebbe essere di più piacevole per un giovane, in effetti,
che parlare con un adulto disponibile di letteratura, a partire magari
da una novella di Maupassant? Certo, quella piacevolezza finisce
con l’essere alquanto sminuita se il giovane ha motivo di pensare che
l’adulto in questione lo sottoporrà alle più orribili ritorsioni nel caso
mostri di non condividere i suoi punti di vista, ma in questo caso, scusate,
la responsabilità di chi è?
28.11.’04