Temo di avervi citato fin troppo spesso quella vieta massima di professionalità
giornalistica secondo la quale a meritare l’onore delle stampe non è la
notizia del cane che morde un uomo, ma, se mai, quella dell’uomo che morde
un cane. Dico “temo” perché, come succede spesso in questi casi,
la proposizione, pur di età venerabile (io l’ho incontrata per la prima
volta in un giallo di ambiente giornalistico del 1956) e largamente diffusa
nelle varie redazioni è, sostanzialmente, falsa. Non occorre essere
un massmediologo per esperto per sapere che l’informazione, oggi, gioca
soprattutto sulla ridondanza e che su quanto non rientra negli schemi accettati
preferisce chiudere risolutamente gli occhi.
Se quel principio valesse davvero, d’altronde, il viaggio in America che
il Presidente Berlusconi ha compiuto, dice lui, nell’ambito dei suoi doveri
istituzionali (il che almeno ci permette di parlarne senza fastidiosi problemi
di par condicio) non avrebbe meritato più di un trafiletto in settima pagina.
Che i capi di governo italiani sotto elezioni sentano il bisogno
di farsi ricevere negli Stati Uniti è cosa nota dal 1946, quando lo fece
De Gasperi. E quanto alla storica tendenza al servilismo delle classi
dirigenti di questo paese, be’, già Tacito racconta come, all’ascesa
al trono di Tiberio, 1992 anni fa, Romae ruere in servitium consules patres
eques, “a Roma i consoli, i senatori e i cavalieri si precipitarono ad
asservirsi”. Certo, allora ci si sottometteva a un principe locale,
mentre oggi gli inchini e le lusinghe di un eques romanus vanno a
un potentato straniero, ma neanche questa è una novità, come insegna la
storia patria e spiega il Machiavelli. Quella di presentarsi a Washington
con il cappello in mano non è esattamente una innovazione e ho come il
vago sospetto che, se al governo ci fossero gli uomini del centrosinistra,
lo farebbero anche loro. Tanto è vero che non hanno protestato per
l’atto in sé, né si sono dati pensiero dei contenuti politici della visita,
ma hanno soltanto mugugnato un po’ perché la copertura televisiva violava
le norme preelettorali, il che, naturalmente, è vero, ma come argomento
lascia il tempo che trova.
Sarebbe stato più interessante, senza dubbio,
analizzare quanto il capo del governo – non chiamiamolo Premier,
titolo cui non ha diritto per motivi linguistici e costituzionali – ha
detto davanti a Bush e al Congresso. Anche qui, a prima vista, siamo
nella sfera del ridondante puro, visto che il concetto base dei suoi discorsi,
quello per cui l’unica speranza di pace, prosperità e democrazia va cercata
nella più stretta unità tra le componenti storiche dell’ “Occidente”,
Europa e Stati Uniti, è solo un luogo comune della retorica politica
degli ultimi sessanta anni. Lo hanno ripetuto, con varianti minime,
praticamente tutti i leader europei e americani, compresi quelli che più
degli altri avevano sulle croste la controparte di oltre Atlantico. L’unico
che se ne è esonerato è stato De Gaulle, ma lui era alto quasi due metri
e se lo poteva permettere. Gli altri si sono tenuti attaccati al
concetto come ostriche allo scoglio, un po’ per via dei dettami
della cortesia diplomatica e un po’ perché a rompere quella unità, finché
vigeva la contrapposizione con il blocco sovietico, non ci pensava davvero
nessuno. Nemmeno, forse, le general.
Ma qui viene il bello. Adesso il blocco
sovietico non c’è più e parlare di “Occidente” è diventato molto più
problematico. In fondo “oriente” e “occidente”, in sé, sono soltanto
due termini topologici reciprocamente relativi e non hanno un significato
assoluto. O meglio, ne hanno uno soltanto nel contesto geopolitico
europeo e mediterraneo, a partire dalla divisione dell’Impero Romano nel
395 d.C. La data può apparire remota, ma, in fondo, anche la distinzione
novecentesca, quella con cui siamo cresciuti noi, rispecchiava in un certo
modo quell’antica frattura: l’Occidente incarnava la continuità del mondo
latino germanico, in cui l’America si considera, per così dire, un’estensione
dell’Europa atlantica e l’Oriente si identificava con il blocco slavo,
erede riconosciuto della civiltà bizantina, e i suoi vicini più a est.
Chi stava troppo vicino al confine poteva avere i suoi guai, come
sanno per esperienza greci, jugoslavi, magiari e polacchi, ma lo schema,
più o meno, era quello. Certo, si poteva anche sostenere, a volerlo,
che l’Occidente incarnava la democrazia e l’Oriente il dispotismo, ma
ci voleva una gran volontà di semplificazione, nonché l’improntitudine
necessaria per mettere tra parentesi tutto il fascismo europeo. Quei
due termini, in ogni caso, valevano come espressioni politiche solo se
si dava per scontata la esistenza di una spaccatura, di un confine che
tagliasse l’Europa da nord a sud, di quella barriera – cioè – che le
vicende storiche avevano stabilito, più o meno, al 13° grado di latitudine
est.
Era, lo sappiamo, la “cortina di ferro”.
Ma oggi che non c’è più, come si fa a parlare di Occidente?
Bisogna inventarsi un’altra contrapposizione, possibilmente più
credibile di quella tra democrazia e totalitarismo. Il Berlusca,
al Congresso USA, ha parlato soprattutto di pericolo islamico, che potrebbe
anche essere una soluzione possibile (l’Islam, si sa, viene da Oriente…),
ma comporta la necessità di accettare lo schema dello “scontro di civiltà”,
con tutte le sue antipatiche implicazioni. E non basta, per esorcizzarle,
associarsi i “paesi islamici moderati”, perché la distinzione tra
moderazione ed estremismo non è una esclusiva dei musulmani e alla stessa
stregua si potrebbero distinguere i paesi cristiani moderati (che so, le
democrazie laiche tipo Francia, Svizzera, Paesi Bassi…) da quelli oltranzisti,
come gli Stati Uniti del fondamentalista Bush e l’Italia del cardinale
Ruini. Nel qual caso l’ “unità” proposta dal nostro assumerebbe
una connotazione piuttosto inquietante, come volontà di dominio e di egemonia
totale, culturale oltre che militare e politica. Che è poi quello
in cui Bush dichiaratamente crede e in cui, per la proprietà transitiva,
siamo autorizzati a supporre che creda anche Berlusconi.
Be’, forse per quel suo discorso, per banale
e ripetitivo che fosse, era un po’ meno ridondante di quanto sembrava.
05.03.’06
Nota: Il giallo con l’uomo che morde il cane è Sepolcro di carta
di Sergio Donati, pubblicato dai “Gialli Mondadori” appunto nel 1956.
La citazione da Tacito viene da Annales, I, 7. L’allusione
al Machiavelli nasce, naturalmente, dal capitolo conclusivo del Principe.