Il presidente albicocca

La caccia | Trasmessa il: 11/09/2008


    Come indubbiamente sapranno quanti di voi si dilettano di lingue ugro-finniche dell'Europa Centrale, Barack, il primo nome proprio del futuro presidente degli Stati Uniti è parola che in ungherese significa “albicocca”. E come è senz'altro noto ai non astemi che abbiano avuto occasione di fare un salto in Ungheria, o, semplicemente, di pranzare in un ristorante ungherese – una volta a Milano ce n'erano un paio mica male – lo stesso termine, usato come modificatore del sostantivo pálinka, “acquavite”, è impiegato comunemente per indicare un distillato alcolico ad alta gradazione che appunto dalle albicocche si ricava. In Ungheria, in realtà, producono diversi tipi di acquavite, di ciliege, di prugne, di pere, ma quella di albicocche è la più pregiata e di solito la si considera di rigore per accompagnare i piatti, sempre un po' pesanti, di quella gastronomia.
    Il nome del presidente Obama, naturalmente, non è ungherese, ma viene da una lingua del Kenya, non saprei dirvi quale, e quindi ci troviamo di fronte a una pura coincidenza, a un caso di semplice omofonia, e neanche tanto perfetta perché, in realtà, le due parole hanno, in magiaro e in inglese, una pronuncia leggermente diversa. E poi un nome, si sa, è solo un nome, la rosa se non si chiamasse rosa conserverebbe comunque il suo soave profumo e i nomi propri, in particolare, vengono assegnati ad arbitrio, passano da una lingua all'altra e hanno un legame assai debole con i propri impegni semantici originari. “Silvio”, per esempio, viene dal latino silvius, che indica, più o meno, un “uomo delle foreste”, ma nessuno si rappresenta Berlusconi in perizoma di leopardo intento a spenzolarsi, novello Tarzan, da una liana. “Walter” è la trascrizione in pronuncia italiana di un nome inglese che suona più o meno come uolta, meglio si renderebbe in italiano con “Gualtiero”, e contenendo le radici germaniche Walda, “comandare” e Harija, “esercito” designava in origine un “comandante militare”, senza che per questo alcuna caratterizzazione di soldatesco vigore si associ nella coscienza di tutti noi all'immagine del mite Veltroni. E così via.
    Tuttavia... tuttavia essendo le costumanze politiche quelle che sono, ammetterete anche voi che è una bella fortuna per il nuovo presidente che negli Stati Uniti l'ungherese non sia largamente parlato e compreso. Quegli elettori hanno già dovuto superare non poche resistenze e pregiudizi per mandare un nero alla Casa Bianca (smentendo, tra parentesi, una mia implicita previsione di giorni fa), e chissà come avrebbero reagito se il nome del loro aspirante comandante in capo fosse stato percepito come “Albicocca Obama” o, peggio, “Grappino Obama”. I presidenti di solito si chiamano con nomi seri, come George, che viene dal greco e significa “Lavoratore della terra”, o William, che ci riporta all'ambito germanico e unisce le radici Willa e Helm per esprimere una rassicurante “volontà di proteggere”, o John, che restituisce l'ebraico Jòhànàn, che vuol dire, mica paglia, “dono del Signore”. Le albicocche e i grappini, in tutto questo, c'entrano davvero poco.
    Eppure, lasciando perdere gli omofoni ungheresi e tornando una buona volta al nome Barack, inteso come imprestito di dubbio valore semantico passato all'inglese da una lingua dell'Africa occidentale, non credo che abbia nuociuto, in questi anni, al giovane e brillante politico in carriera che se l'è trovato sul certificato di nascita. Ha senza dubbio aiutato a trasmettere ai suoi elettori e supporters una certa quantità di informazioni, cui magari si sarebbe potuto attingere da altre fonti, ma che si lasciano ben riassumere dall'icasticità di un nome proprio. Ha ricordato loro che il tipo veniva da una famiglia senz'altro nonconformista (e per forza, se i suoi genitori si erano imbarcati in un'avventura che in America non vedono troppo di buon occhio, come un matrimonio misto), ma anche abbastanza borghese da cedere al vezzo di dare al rampollo un “bel” nome straniero, che è costume abbastanza diffuso a un certo livello socioculturale, come dimostrano tutti i Christian, le Jessica, gli Ivan e i Walter che circolano tra di noi. E ha ricordato loro, soprattutto, che, in quanto Barack, il giovanotto non condivideva le origini degli altri afroamericani, i cui antenati sono giunti in America in qualità di schiavi e hanno assunto, al momento della emancipazione, i nomi e i cognomi dei loro ex (?) padroni, che hanno poi trasmesso pari pari ai discendenti, che infatti si chiamano, oggi, John, George, William, Charles e via andare, come tutti. No, lui ha un nome esotico che gli ha imposto il padre africano, d'accordo con una madre del Kansas che più bianca non poteva essere, e la sua è tutta un'altra storia. Se gli fosse toccato un normale nome europeo, o anche uno illustre, come, che so, Jesse o Martin Luther, il contrasto con la sua ostensibilità etnica avrebbe potuto essere interpretato come un marchio di schiavitù, che in teoria è cosa che dovrebbe andare a vergogna di chi lo impone o non di chi lo subisce, ma, in pratica, in politica è sempre meglio evitare.
    Vabbé, prendiamolo come un auspicio e speriamo in bene, anche se, rappresentando il neoeletto, in ultima analisi, il tipico prodotto dell'establishment americano corrente, confesso di riuscire a credere solo fino a un certo punto a quelle sue qualità taumaturgiche e soteriologiche di cui oggi tutti si riempiono la bocca. Che volete: forse sarei stato più fiducioso se si fosse chiamato davvero Albicocca. O Grappino, naturalmente.

    09.11.'08