Mi sono sempre considerato, se non proprio
un cinefilo, un appassionato della decima arte, ma è da parecchio, ormai,
che mi trovo un po’ riluttante a metter piede in un cinema. Ci sono
troppe cose che me ne dissuadono, a parte i prezzi elevati e le difficoltà
di raggiungere quelle due o tre vie del centro dove sale e multisale sono
ormai confinate. Devo tener conto di quel tanto di naturale pigrizia,
che, crescendo con gli anni, mi induce sempre più spesso a passare in casa
le mie serate. E poi… e poi non riesco a impedirmi di pensare, tra
me e me, che i film di oggi sono ben povera cosa rispetto a quelli di un
tempo, vergognandomene subito dopo, perché la tendenza ad arruolarsi tra
i laudatores temporis acti, naturalmente, è solo un indizio sicuro di senilità.
Insomma, al cinema ormai ci andrò due o tre volte all’anno e il
più delle volte, per un motivo o per l’altro, torno a casa di pessimo
umore. Ma penso che potrei sforzarmi di fare qualcosa di più se
non fosse per un’usanza che trovo, tra tutte, la più detestabile, e che
sta affermandosi, ormai, nei principali esercizi: quella di assegnare,
all’ingresso, dei posti numerati.
Ora,
quella dei posti numerati, magari prenotabili per telefono, in linea di
principio sembrerebbe un’ottima idea. Garantisce che non si vendano
più biglietti delle poltrone e protegge dal rischio, una volta tutt’altro
che infrequente, di pagare a caro prezzo il diritto di assistere allo spettacolo
in piedi o seduti sui gradini laterali. D’altra parte, se mi permettete
l’espressione, è una bella rottura di scatole, almeno per quegli irriducibili
individualisti che preferirebbero, potendo, scegliersi da soli la postazione
dove sedere. Anche perché, a differenza che nei teatri, alla cassa
non è ammessa nessuna contrattazione e non vige il saggio principio per
cui i posti peggiori costano meno degli altri, che permette, quando si
capita male, di consolarsi pensando di aver fatto, se non altro, un po’
di economia.
Macché.
Al cinema i posti costano tutti la stessa esosissima cifra e vengono
assegnati in modo puramente casuale. E quando la direzione del locale
finge di voler sostituire al caso un criterio qualsiasi, di solito è peggio.
Un
esempio. L’altro giorno, spinto dal mio vecchio amore per Robert
Altman, sono andato a vedermi Gosford Park, che non sarà proprio all’altezza
di Images o di Nashville, ma mi è sembrato, tutto sommato, meritevole di
essere visto. Eppure, per poco non l’ho visto affatto: sulla cassa
campeggiava un cartello che avvertiva di come i biglietti venissero emessi
da un computer, che avrebbe automaticamente assegnato, caso per caso, “il
miglior posto disponibile”. Ed è bastato questo per farmi venire
all’istante una gran voglia di fare marcia indietro.
Non
era, ve lo assicuro, un attacco improvviso di allergia all’informatica.
Era una questione puramente metodologica. Perché come si fa,
santiddio, a decidere, con o senza computer, qual è il posto migliore in
un cinema, disponibile o meno che sia? Per me, che non so mai dove
mettere le gambe, e faccio, per motivi sui quale è inutile soffermarsi
in questa sede, una certa fatica a piegarne una, il posto migliore è indubbiamente
quello che mi permette di stenderle, vale a dire che deve trovarsi in una
di quelle file di poltrone che danno immediatamente su un corridoio traversale.
Per il mio amico Natale, che ama sentirsi immerso nell’azione, quasi
a tu per tu con i protagonisti, è più auspicabile una posizione abbastanza
avanzata, non proprio sotto lo schermo, ma neanche troppo distante. Per
la Nuccia, che preferisce concedersi una certa prospettiva da cui giudicare
le cose e, comunque, ha in odio i rumori violenti, va molto meglio, invece,
una poltrona un po’ verso il fondo, e che sia a doverosa distanza, mi
raccomando, dalle casse stereo. Per tutti, di solito, è meglio un
posto davanti al quale non sia seduto un gigante in cappello a cilindro
e meglio ancora se i sedili accanto sono liberi, in modo da poterci sistemare
con una certa comodità cappelli e soprabiti. Non è facile, quando
si entra in una sala, soddisfare tutte le proprie diverse necessità, specialmente
se si è in gruppo, ma decidere dove sedersi non è neanche un’impresa impossibile.
Tutti siamo in grado di valutare la situazione, compesare rapidamente
vantaggi e svantaggi e fare la nostra scelta. Se le circostanze si
rivelano irrimediabilmente avverse, o se sbagliamo nel fare i nostri calcoli,
non potremo eludere una certa scomodità, ma sarà, se non altro, colpa nostra,
perché siamo arrivati troppo tardi o non abbiamo tenuto conto di qualche
fattore nella costruzione del necessario algoritmo mentale.
Ma
trovarsi assegnato – maledizione! – un posto che proprio non ti piace,
in una delle poche zone affollate di un locale mezzo vuoto, accanto a degli
estranei rumorosi e molesti, in prossimità degli altoparlanti e in posizione
tale da dovere piegare il collo in un angolo innaturale, e tutto perché
un computer, e chi lo ha programmato, ha deciso, in nome di chissà quale
criterio, che quello era il miglior posto disponibile quando hai comprato
il biglietto, be’, questo significa soltanto unire al danno le beffe.
E non ditemi che in queste evenienze, se appena ce n’è la possibilità,
nessuno ti vieta di non badare al numero che ti hanno assegnato e sederti
dove vuoi. A parte il fatto che quando una norma può essere elusa
senza problemi tanto vale abolirla, e che, dovunque uno decida di sedersi,
le possibilità che arrivi qualche rompicoglioni regolarmente munito di
biglietto a reclamare quel posto sono comunque altissime, la questione
è tutta di principio. Quel metodo, per comodo e ragionevole che possa
sembrare, espropria i cittadini spettatori di un diritto, tutto sommato,
fondamentale: quello di decidere quali criteri applicare in una circostanza
che ne ammette diversi.
Non si tratta, capite, di voler fare
il proprio comodo costi quel che costi, di puntare diritti, nel caso, al
posto che si desidera a costo di far alzare qualcun altro con la violenza.
Quello lo so anch’io che non si può fare. Se un certo bene
non è disponibile, per esempio perché ci è arrivato prima qualcun altro,
be’, si dice “peccato” e ci si rinuncia. Ma ciascuno ha i propri
criteri per minimizzare i danni e massimizzare i vantaggi e bisogna ben
lasciarglieli usare. Altrimenti si finirebbe per vivere in una società
a confronto della quale la Repubblica ideale di Platone e la Città del
Sole del Campanella, tanto per citare due noti modelli di convivenza repressiva,
sembrerebbero due esempi di tolleranza spinta fin quasi al lassismo. E
se pensate che questo discorso sia troppo solenne per una questione banale
come quella del posto al cinematografo, provate a riflettere su quanto
sono diffusi i computer nella pubblica amministrazione e a quali utili
applicazioni in quel senso potrebbero prestarsi e poi mi direte.
07.04.’02