Il miglior posto disponibile

La caccia | Trasmessa il: 03/17/2002



Mi sono sempre considerato, se non proprio un cinefilo, un appassionato della decima arte, ma è da parecchio, ormai, che mi trovo un po’ riluttante a metter piede in un cinema.  Ci sono troppe cose che me ne dissuadono, a parte i prezzi elevati e le difficoltà di raggiungere quelle due o tre vie del centro dove sale e multisale sono ormai confinate.  Devo tener conto di quel tanto di naturale pigrizia, che, crescendo con gli anni, mi induce sempre più spesso a passare in casa le mie serate.  E poi… e poi non riesco a impedirmi di pensare, tra me e me, che i film di oggi sono ben povera cosa rispetto a quelli di un tempo, vergognandomene subito dopo, perché la tendenza ad arruolarsi tra i laudatores temporis acti, naturalmente, è solo un indizio sicuro di senilità.   Insomma, al cinema ormai ci andrò due o tre volte all’anno e il più delle volte, per un motivo o per l’altro, torno a casa di pessimo umore.   Ma penso che potrei sforzarmi di fare qualcosa di più se non fosse per un’usanza che trovo, tra tutte, la più detestabile, e che sta affermandosi, ormai, nei principali esercizi: quella di assegnare, all’ingresso, dei posti numerati.
        Ora, quella dei posti numerati, magari prenotabili per telefono, in linea di principio sembrerebbe un’ottima idea.  Garantisce che non si vendano più biglietti delle poltrone e protegge dal rischio, una volta tutt’altro che infrequente, di pagare a caro prezzo il diritto di assistere allo spettacolo in piedi o seduti sui gradini laterali.  D’altra parte, se mi permettete l’espressione, è una bella rottura di scatole, almeno per quegli irriducibili individualisti che preferirebbero, potendo, scegliersi da soli la postazione dove sedere.  Anche perché, a differenza che nei teatri, alla cassa non è ammessa nessuna contrattazione e non vige il saggio principio per cui i posti peggiori costano meno degli altri, che permette, quando si capita male, di consolarsi pensando di aver fatto, se non altro, un po’ di economia.
        Macché.  Al cinema i posti costano tutti la stessa esosissima cifra e vengono assegnati in modo puramente casuale.  E quando la direzione del locale finge di voler sostituire al caso un criterio qualsiasi, di solito è peggio.
        Un esempio.  L’altro giorno, spinto dal mio vecchio amore per Robert Altman, sono andato a vedermi Gosford Park, che non sarà proprio all’altezza di Images o di Nashville, ma mi è sembrato, tutto sommato, meritevole di essere visto.  Eppure, per poco non l’ho visto affatto: sulla cassa campeggiava un cartello che avvertiva di come i biglietti venissero emessi da un computer, che avrebbe automaticamente assegnato, caso per caso, “il miglior posto disponibile”.  Ed è bastato questo per farmi venire all’istante una gran voglia di fare marcia indietro.
        Non era, ve lo assicuro, un attacco improvviso di allergia all’informatica.  Era una questione puramente metodologica.  Perché come si fa, santiddio, a decidere, con o senza computer, qual è il posto migliore in un cinema, disponibile o meno che sia?   Per me, che non so mai dove mettere le gambe, e faccio, per motivi sui quale è inutile soffermarsi in questa sede, una certa fatica a piegarne una, il posto migliore è indubbiamente quello che mi permette di stenderle, vale a dire che deve trovarsi in una di quelle file di poltrone che danno immediatamente su un corridoio traversale.  Per il mio amico Natale, che ama sentirsi immerso nell’azione, quasi a tu per tu con i protagonisti, è più auspicabile una posizione abbastanza avanzata, non proprio sotto lo schermo, ma neanche troppo distante.  Per la Nuccia, che preferisce concedersi una certa prospettiva da cui giudicare le cose e, comunque, ha in odio i rumori violenti, va molto meglio, invece, una poltrona un po’ verso il fondo, e che sia a doverosa distanza, mi raccomando, dalle casse stereo.  Per tutti, di solito, è meglio un posto davanti al quale non sia seduto un gigante in cappello a cilindro e meglio ancora se i sedili accanto sono liberi, in modo da poterci sistemare con una certa comodità cappelli e soprabiti.  Non è facile, quando si entra in una sala, soddisfare tutte le proprie diverse necessità, specialmente se si è in gruppo, ma decidere dove sedersi non è neanche un’impresa impossibile.  Tutti siamo in grado di valutare la situazione, compesare rapidamente vantaggi e svantaggi e fare la nostra scelta.  Se le circostanze si rivelano irrimediabilmente avverse, o se sbagliamo nel fare i nostri calcoli, non potremo eludere una certa scomodità, ma sarà, se non altro, colpa nostra, perché siamo arrivati troppo tardi o non abbiamo tenuto conto di qualche fattore nella costruzione del necessario algoritmo mentale.
        Ma trovarsi assegnato – maledizione! – un posto che proprio non ti piace, in una delle poche zone affollate di un locale mezzo vuoto, accanto a degli estranei rumorosi e molesti, in prossimità degli altoparlanti e in posizione tale da dovere piegare il collo in un angolo innaturale, e tutto perché un computer, e chi lo ha programmato, ha deciso, in nome di chissà quale criterio, che quello era il miglior posto disponibile quando hai comprato il biglietto, be’, questo significa soltanto unire al danno le beffe.  E non ditemi che in queste evenienze, se appena ce n’è la possibilità, nessuno ti vieta di non badare al numero che ti hanno assegnato e sederti dove vuoi.  A parte il fatto che quando una norma può essere elusa senza problemi tanto vale abolirla, e che, dovunque uno decida di sedersi, le possibilità che arrivi qualche rompicoglioni regolarmente munito di biglietto a reclamare quel posto sono comunque altissime, la questione è tutta di principio.  Quel metodo, per comodo e ragionevole che possa sembrare, espropria i cittadini spettatori di un diritto, tutto sommato, fondamentale: quello di decidere quali criteri applicare in una circostanza che ne ammette diversi.
Non si tratta, capite, di voler fare il proprio comodo costi quel che costi, di puntare diritti, nel caso, al posto che si desidera a costo di far alzare qualcun altro con la violenza.  Quello lo so anch’io che non si può fare.  Se un certo bene non è disponibile, per esempio perché ci è arrivato prima qualcun altro, be’, si dice “peccato” e ci si rinuncia.  Ma ciascuno ha i propri criteri per minimizzare i danni e massimizzare i vantaggi e bisogna ben lasciarglieli usare.  Altrimenti si finirebbe per vivere in una società a confronto della quale la Repubblica ideale di Platone e la Città del Sole del Campanella, tanto per citare due noti modelli di convivenza repressiva, sembrerebbero due esempi di tolleranza spinta fin quasi al lassismo.  E se pensate che questo discorso sia troppo solenne per una questione banale come quella del posto al cinematografo, provate a riflettere su quanto sono diffusi i computer nella pubblica amministrazione e a quali utili applicazioni in quel senso potrebbero prestarsi e poi mi direte.

07.04.’02