Il comitato per l'ipocrisia

La caccia | Trasmessa il: 10/17/2010


    Il comitato per l'ipocrisia

    Scusatemi se torno su un argomento su cui si è parlato anche troppo, in questa e altre sedi, ma è da qualche giorno che voglio farvi una domanda. Come reagireste – mi chiedo – se qualcuno vi venisse a dire di essere contrario alla esposizione in pubblico di qualsiasi tipo di croce e crocifisso, specificando, però, che questo suo atteggiamento non deriva da una qualsiasi forma di ostilità al cristianesimo, ma, che so, dal fatto che lui è contrario alla pena di morte e la croce è, storicamente, una forma di patibolo? Immagino che, con un certo sforzo, potreste anche riconoscerne la buonafede e persino fingere di dargli ragione, ma sotto sotto sareste convinti che il tipo, quanto a tolleranza religiosa, non è esattamente un campione e che anche dal punto di vista della sincerità lascia un poco a desiderare. Il che non ne fa, ovviamente, il più desiderabile degli interlocutori..
    Passiamo adesso al parere espresso dal Comitato per l'Islam italiano del Ministero degli Interni (perché esiste anche un organo di tal fatta) a proposito dei testi di legge in discussione presso la Commissione Affari costituzionali della Camera sulla vexata quaestio del burqa e, più in generale, del velo islamico. Tali strumenti legislativi, ho appreso, si propongono di emendare l'art. 5 della legge 152 del 1975, che vieta l'uso, “senza giustificato motivo”, di “caschi o qualsiasi altro indumento che impedisca il riconoscimento della persona in luogo pubblico” e alcuni di essi, oltre a proporre di togliere il riferimento al “giustificato motivo”, chiedono di vietare espressamente “gli indumenti femminili in uso presso le donne di religione islamica denominati burqa e niqab”. Non è difficile immaginare chi li abbia proposti e perché, né sembrerebbe probabile un parere negativo da parte del governo che ci ritroviamo. Invece no. Il Comitato (che non per niente è stato insediato dal ministro Maroni) è d'accordissimo sul vietare, in nome delle “considerazioni di ordine pubblico secondo cui il fatto che persone travisate in modo di non essere riconoscibili non possano essere identificate dalle forze dell'ordine, individuate dai conoscenti e, se del caso, descritte dai testimoni” rappresenta un grave pericolo per l'ordine democratico, “tanto più di fronte al rischio internazionale legato al terrorismo.” Ma ritiene che sia meglio, molto meglio, “omettere dai testi di legge ogni riferimento alla religione e all'islam, limitandosi alla formulazione secondo cui nel divieto devono intendersi compresi gli indumenti denominati burqa e niqab, prescindendo dalle motivazioni che spingono le persone a indossarli”. L'obiettivo è quello di “deconfessionalizzare” la legge, per non alimentare polemiche, ovvero di vietare quello che si vuole vietare senza specificare a chi lo si vieta e perché. Tanto, si fa notare, l'imposizione alle signore dei suddetti indumenti non è sancita dal Corano e non ha, quindi, il valore di “un obbligo religioso”.
    Sarà anche vero, ma a parte il fatto che non è compito del Ministero degli Interni e dei suoi comitati sentenziare sugli obblighi religiosi di chicchessia, è altrettanto vero che coloro che indossano o fanno indossare quei paramenti ritengono di farlo in doverosa conformità a un precetto di fede e non credo siano disposti ad accettare lezioni in merito da Maroni o chi per lui. Vivranno dunque la nuova legge, per deconfessionalizzata che sia, come una ulteriore norma persecutoria e se ne adonteranno, con inevitabile peggioramento del clima civile del paese. Quello di “non alimentare polemiche” resterebbe, pur con il testo emendato, un pio desiderio.
    Be', potreste chiedermi, e cosa pretendo? Che una legge della Repubblica vieti espressamente una pratica religiosa in quanto tale? Figuriamoci: di motivi per regolamentare in qualche modo l'uso del burqa se ne possono trovare a bizzeffe (bisognerebbe, per esempio, garantire che non sia imposto alle interessate contro la loro volontà da padri, mariti e fratelli), ma è ovvio che nessuna legge può mettere in discussione un'appartenenza religiosa. In caso di divieti motivati da ragioni di ordine pubblica, quest'ultima, al massimo, può essere considerata un'esimente, secondo la stessa logica per cui negli Stati Uniti, ai tempi del proibizionismo, nessuno poteva accostare legalmente alle labbra un solo goccio di vino, ma il divieto non valeva per i preti cattolici che officiavano il rito della comunione. Se un problema c'è va affrontato esplicitamente e coraggiosamente in una prospettiva laica, per tutte le confessioni e le appartenenze, come si è cercato di fare in Francia, nella prospettiva di assicurare il massimo di libertà per tutti. Sull'utilità delle calcolate omissioni e delle facili reticenze raccomandate dal comitato ministeriale de quo, permettetemi di nutrire i miei dubbi. Servono solo ad aumentare il livello di ipocrisia nella vita pubblica e ce n'è già fin troppa.
17.10.'10