Non so se vi sia capitato di dare un’occhiata alla tavola dei simboli
depositati presso l’apposito ufficio del Ministero degli Interni in vista
delle prossime elezioni. Sono, in totale, 174, un po’ troppi –
forse – per esaminarli uno per uno, ma anche limitandosi ai circa 40 presentati
dalle forze che si rifanno alle due coalizioni principali, si possono fare
delle considerazioni non prive di un loro interesse.
Molti, naturalmente, sono del tutto ridicoli
ed è un peccato che le norme vigenti impediscano di additarli al pubblico
ludibrio. Altri sono destinati, con ogni evidenza, a ciurlare nel
manico, giocando sulle sfumature di certi colori chiave o sui vari modi
di declinare il termine “autonomia” per indurre gli elettori in errore,
facendogli votare un partito credendo di votarne un altro. Sono cose,
si sa, che si sono sempre fatte, ma bisogna dire che quest’anno la proliferazione
di false leghe, di falsi partiti di categoria e di altre offerte
ambigue è più impressionante del solito. E poi ci sono i molti simboli
che si riferiscono a realtà politiche affatto sconosciute, presumibilmente
create per l’occasione, visto che la legge elettorale permette di sommare,
in vista del premio di maggioranza, i voti di qualsiasi partito coalizzato,
anche se restano abissalmente al di sotto di qualsiasi possibile quorum,
e sarebbe un peccato non sfruttare ogni piega del mercato elettorale. Qualsiasi
contributo in voti, anche se minimo, può rivelarsi fondamentale. Così,
ciascuna coalizione deve avere non solo i “suoi” socialisti, i “suoi”
lombardi, i “suoi” radicali e i “suoi“ democristiani (e se non ne ha
se li inventa), ma per non correre il rischio di lasciare qualche settore
scoperto, vuole anche i suoi pensionati, i suoi consumatori e tutto il
resto. Male non possono fare.
Gran parte di quei simboli, insomma, rispecchia il repertorio un po’ squallido
dei trucchi e dei mezzucci della bassa politica, quella che, incapace di
fare chiarezza sugli interessi e sui valori in palio, preferisce giocare
sulla confusione, nella speranza di poterci, in un modo o nell’altro,
lucrare qualcosa. È vero che i cittadini sono più intelligenti di
quanto non pensino i politici e di solito non ci cascano, confinando le
liste troppo palesemente di fantasia nel limbo delle percentuali omeopatiche,
ma ciò non impedisce agli strateghi elettorali di riprovarci ogni volta.
Buon pro gli faccia, naturalmente. Ma, sempre a proposito di simboli,
avrete notato che anche quelli delle forze politiche “serie” (mi raccomando
le virgolette), intendendo per tali quelle che si contendono davvero in
prima persona il governo del paese, si presentano con un’aria, come dire,
un po’ spenta. Tranne quei pochi che ripropongono, con le opportune
varianti, l’iconografia della prima repubblica, non riescono a esprimere
figuralmente una vera idea forza. Si affidano piuttosto alle parole:
al nome del leader candidato (la cui introduzione, non mi stancherò di
ripeterlo, è un vergognoso escamotage per introdurre surrettiziamente,
in spregio alla Costituzione, una forma di elezione diretta del capo del
governo) o a quello della forza politica, che è già, di preferenza, quanto
più anodino possibile. Sono, di fatto, molto scritti, il che è piuttosto
contraddittorio, perché i simboli sono stati introdotti sulle schede, a
suo tempo, proprio per evitare problemi agli elettori che con il leggere
e lo scrivere non si trovassero a proprio agio e se oggi l’analfabetismo
non esiste più (anche se qualche ricerca accurata potrebbe riservare delle
sorprese in proposito), allora tanto varrebbe saltare il fosso e sottoporre
ai votanti direttamente i nomi. Ma il problema non è neanche questo:
sta piuttosto nel fatto che come simboli, in sé, quegli emblemi proprio
non funzionano. Non esprimono assolutamente niente.
Mi spiego. Tutti quei fiori, quelle fronde, quegli alberi, quelle
corone di stelle, quelle combinazioni di colori nascono, se va bene, da
uno sforzo dei grafici, non sono radicati in una storia qualsiasi. E
il simbolo, naturalmente, non è soltanto un logo, una cosa da giudicare
secondo criteri puramente estetici: come tutti i significanti trae la propria
natura simbolica dal fatto che gli interessati hanno deciso di conferirgliela,
che si sono accordati, attraverso una lunga serie di eventi, sul loro significato.
La croce rappresentava la fiducia nel magistero ecclesiastico e la
falce e il martello l’unità e la volontà di lotta dei lavoratori: la loro
contrapposizione, vera o falsa che fosse, funzionava fin troppo bene e
ha segnato la storia della nostra democrazia. La fiamma tricolore
che fuoriusciva da una specie di parallelepipedo nero era di comprensione
meno immediata, ma acquistava valore dalla convenzione implicita e largamente
diffusa che quell’oggetto rappresentasse il feretro di Mussolini. La
foglia d’edera, la corona, il sole che sorge, il berretto frigio avevano
alle spalle una storia più che secolare di utilizzazione simbolica. E
così via: quegli emblemi, per un verso o per l’altro, definivano un insieme
di aree di appartenenza, sulla cui dialettica interna cui si fondava,
con gli inevitabili compromessi e tralignamenti, la vita politica del paese.
Oggi le ideologie – ci dicono – sono in crisi. Non è vero, naturalmente,
come gli ascoltatori di questa trasmissione sanno benissimo. Di
ideologie, nelle forme più o meno mascherate che è dovere di ogni spirito
critico demistificare, ne girano un sacco. Ma le appartenenze di
quel tipo, be’, quelle non esistono davvero più. Il voto è sempre
di più un fatto di scambio, se non una scelta tra ipotesi sempre
di più interscambiabili. Come interscambiabili devono essere le forze
che ce lo chiedono (di fatto, mai come oggi tra di esse tanti scambi sono
avvenuti) e i simboli che, incongruamente, le rappresentano. I vecchi
simboli venivano dalla storia, ma la storia è appunto quello di cui, in
nome di una idea omogeneizzata dello sviluppo, si è deciso di fare a meno.
E poco importa se il gioco, a lungo andare, si rivela sempre più
futile.
06.03.’06