I due fallimenti

La caccia | Trasmessa il: 02/19/2012


I due fallimenti

    Non tutti lo sanno, visto che la storia moderna di quel paese non è particolarmente nota al di fuori di suoi confini, ma la Grecia ha già fatto fallimento una volta. Nel 1893, il crollo sui mercati internazionali del prezzo dell'uva passa, che era praticamente l'unico articolo di esportazione del regno, determinò un drammatico calo delle entrate, in seguito al quale il governo di Charilaos Trikupis fu costretto a dichiarare la bancarotta, riducendo del 70% il pagamento degli interessi sui bond, con tutte le conseguenze del caso: crisi di liquidità, inasprimento fiscale, aumento della disoccupazione. Alle successive elezioni gli successe inevitabilmente il suo rivale storico, Theòdoros Diligiannis, che, da bravo nazionalista, non trovò niente di meglio, per distrarre i cittadini dalle incombenti preoccupazioni economiche, che gettare il paese in una nuova guerra con la Turchia. Finì con un disastro, in seguito al quale si dovette rinunciare all'annessione di Creta, pagare una grossa indennità di guerra, acconsentire a varie modifiche di frontiera e – soprattutto – accettare l'insediamento di una commissione internazionale di controllo finanziario formata da rappresentanti inglesi, francesi, russi, tedeschi, austroungarici e italiani, che assunse in prima persona la “supervisione” del pagamento degli interessi sui debiti con l'estero. A tal fine i commissari decisero di incamerare direttamente gli introiti provenienti dai monopoli di stato del sale, del kerosene, dei fiammiferi e delle carte da gioco, per non dire dei dazi sul tabacco e la carta da sigarette e delle imposte da bollo, nonché degli importi delle tasse doganali raccolte nel porto del Pireo.
    I risultati di questa energica operazione di risanamento – come la chiameremmo oggi – furono ovviamente catastrofici. L'economia del paese non si sarebbe ripresa per parecchi decenni e negli anni successivi al 1890 almeno trecentocinquantamila greci – un sesto della popolazione – furono costretti a emigrare, per lo più negli Stati Uniti. Le loro rimesse, in realtà, sarebbero state a lungo l'unica fonte di valuta di cui i loro connazionali potessero disporre.
    Non era la prima volta, né sarebbe stata l'ultima, che il popolo ellenico godeva delle particolari attenzioni delle potenze. Il paese, nonostante l'eroismo dispiegato nella rivoluzione nazionale contro i turchi, aveva potuto accedere all'indipendenza, nel 1832, solo accettando la supervisione di tre “potenze garanti”, Russia, Francia e Gran Bretagna, che non avrebbero rinunciato a quel ruolo fino al 1945 e, per cominciare, avrebbero imposto alla giovane nazione la forma monarchica e due successive dinastie straniere, una tedesca e una danese. Ciononostante, già nel 1854 Francia e Inghilterra occuparono militarmente il Pireo per impedire che la Grecia si alleasse alla Russia contro la Turchia. Nel 1914 il paese sarebbe stato trascinato nella prima guerra mondiale al fianco dell'Intesa da un colpo di stato ispirato dall'estero. Dopo la seconda guerra mondiale, invece, furono le pressioni britanniche (e le clausole di Yalta) a scatenare la guerra civile contro le forze che avevano animato la resistenza contro l'occupazione tedesca dal 1941 al '45. E, naturalmente, nessuno toglierà mai dalla testa dei greci il fermo convincimento che nel 1967 siano stati gli americani, e segnatamente la CIA, a imporre la dittatura dei colonnelli.
    Scusate la lezioncina di storia, ma ammetterete che tutto questo spiega abbastanza bene il punto di vista del greco medio di fronte all'atteggiamento dell'Europa di fronte all'attuale crisi finanziaria. Quali che siano stati i loro errori, i cittadini di quel paese sono più o meno confusamente convinti che nessuna “potenza”, anche se non la si chiama più così, abbia tutte le carte in regola per impartir loro delle lezioni. E abituati come sono a difendere l'indipendenza del loro piccolo popolo contro forze e minacce soverchianti, continueranno semplicemente a difenderla. Costi quello che costi.
    Tanto più che, nella storia contemporanea europea, il loro non è stato l'unico paese a fare fallimento. È toccato – udite, udite – anche alla Germania, nel 1948, il che forse potrebbe spiegare, almeno sotto il profilo psicologico, certe durezze dell'atteggiamento tedesco nelle circostanze attuali. Si sa che non c'è più accanito zelatore della virtù di chi sia stato, in passato, macchiato dal vizio...
    Certo, per far fallire la Germania non era bastata la crisi del mercato della frutta secca. C'erano voluti la catastrofe del nazismo, la sconfitta militare, la divisione e l'occupazione del paese e scusate se è poco. Tuttavia, nel '48 nessuno venne a dire ai tedeschi, per lo meno a quelli dell'Ovest, che se l'erano andata a cercare e non dovevano far altro che prendersela con se stessi. Gli Stati Uniti e i loro alleati erano troppo ansiosi di riarmarli e schierarseli al fianco nella nuova contrapposizione che si andava definendo con l'Unione Sovietica. Così, invece del trattamento che gli auguravano di cuore le popolazioni dei paesi che i loro eserciti avevano occupato, oppresso e saccheggiato (Grecia inclusa), i tedeschi ebbero i milioni del piano Marshall e la possibilità di ricostruire su solide basi la loro economia: anzi, dalla crisi monetaria del '48 sarebbe uscita quella valuta, il Deutsche Mark, su cui si sarebbero fondate le loro fortune finanziarie e che ancor oggi, nella Repubblica Federale, in molti rimpiangono.
    Dicevamo domenica scorsa che c'è crisi e crisi, a seconda di come viene percepita e del tipo di misure che si prendono per superarla. A quanto pare esistono anche più tipi di fallimento, a seconda di cosa il fallito può offrire in riscatto di sé. Evidentemente all'Europa oggi la Grecia non può offrire niente, se non l'occasione di dare un esempio, offrendosi come vittima sacrificale nella bufera che imperversa su tutto il continente. Altro non le si chiede, in effetti, se non il suicidio: anzi, la sua comprensibile riluttanza a provvedere in merito viene presa come la prova definitiva di una irredimibile mancanza di affidabilità. Che in tutto questo si annidi una sorta di circolo vizioso che non permette a nessuno di prevedere qualcosa di buono, le nazioni dell'Europa virtuosa non sembrano in grado di comprendere. Ci sono delle forme di virtù che per chi se ne ammanta rappresentano la peggiore delle condanne.
19.02.'12


    Nota

    Per la crisi greca del 1893, cfr. Richard Clogg, A Short History of Modern Greece, Cambridge University Press 1989; tr. it. di Andrea di Gregorio, Storia della Grecia moderna, Milano, Bompiani 1998, pp. 93 ss.