Questa settimana, a quanto sembra, i
commentatori “seri” (intendendo per tali, con le debite virgolette, quelli
che scrivono sulla grande stampa internazionale) si sono resi conto di
una verità che a noi poveretti era già balenata da un pezzo: che la guerra,
guarda un po’, sta andando malissimo. E non sta andando male soltanto
dal punto di vista di chi si trova sotto i bombardamenti, che non è cosa
che, in sé, preoccuperebbe nessuno: va ancor peggio, forse, da quello di
chi i bombardamenti li programma ed esegue. Le possibilità di mettere
le mani sul famigerato Bin Laden (che probabilmente dall’Afganistan
se ne è andato da un pezzo) si fanno sempre più remote e tutta la strategia
esibita dagli Stati Uniti e dai loro alleati si rivela, da un momento all’altro,
tragicamente inefficace. Il regime dei talebani non si è affatto
dissolto al primo colpo di missile, ma continua a esercitare un saldo controllo
su buona parte di quell’infelice paese. I bombardamenti non hanno
modificato sensibilmente la situazione militare sul terreno. I mujaddin
dell’Alleanza del Nord non sono entrati trionfalmente a Kabul, né, d’altra
parte, vista l’intricata situazione politica, sembra auspicabile che lo
facciano. Le prospettive di mettere insieme, in qualche modo, un
governo amico si fanno, tra veti e controveti, sempre più remote. L’opinione
pubblica internazionale, e non soltanto nei paesi musulmani, comincia a
reagire negativamente a una condotta di guerra che moltiplica le vittime
civili senza apprezzabili risultati. E intanto si sta avvicinando
l’inverno e la possibilità che le forze degli Stati Uniti, all’alba del
XXI secolo, si trovino impantanate nelle gelide vallate afgane, com’è
già successo agli eserciti della Gran Bretagna nel XIX e a quelli dell’Unione
Sovietica nel XX, si fa sempre più concreta. Insomma, la più grande
alleanza militare che la storia ricordi sta correndo ostensibilmente il
rischio di perdere la guerra contro uno dei paesi più poveri e smandrappati
di tutto il pianeta.
Sono
cose, direte, che succedono da sempre. Gli antichi, com’è noto,
vedevano in qualsiasi esibizione troppo compiaciuta della propria potenza,
in ogni indebito convincimento di superiorità, un peccato, una hbris,
che portava in se stessa le ragioni della némesis, come a dire che
conteneva il presupposto del proprio rovesciamento. E anche senza
condividere questa concezione, forse un po’ meccanicistica, del bene e
del male, tutti sanno per esperienza come le vicende umane siano, per propria
natura, imprevedibili e infide.
Tuttavia,
che le cose potessero mettersi su questa via, Bush e i suoi generali potevano
ben immaginarselo. Che con gli attacchi missilistici, per quanto
mirati, e con i bombardamenti, sia pure i più “intelligenti” del mondo,
non si faccia molta strada avrebbe potuto insegnarglielo la doppia esperienza
dell’aggressione all’Iraq nel 1990 e di quella alla Serbia nove anni
dopo. In ambo i casi l’attacco era stato sferrato nella prospettiva
di un successo praticamente immediato e, per così dire, indolore e in ambo
i casi gli aggressori si sono trovati, dal punto di vista militare e politico,
nei guai fino al collo. Mi permetterò anche di ricordare che in tutte
e due le circostanze i risultati sono stati piuttosto deludenti, visto
che Saddam Hussein è tuttora al potere e il suo regime continua a essere
considerato un grave pericolo sul piano internazionale, mentre la stabilità
politica nei Balcani, ancorché siano state spezzate le reni alla Serbia
e Milosevic languisca in carcere all’Aja è ancora di là da venire.
E
allora, delle due l’una. O siamo governati, a livello planetario,
da perfetti imbecilli, che non azzeccano mai la più facile delle previsioni,
o non ce la contano giusta. Non ce la contano giusta perché sapevano
benissimo che le cose sarebbero state come stanno andando e della cattura
di Bin Laden e della rimozione dei talebani, in fondo, non gliene interessa
più che tanto. Dal punto di vista di chi sta al potere la guerra
presenta sempre parecchi vantaggi, politici, ideologici e materiali. Rafforza
il consenso, distoglie l’attenzione dalle contraddizioni interne, sposta
risorse in una direzione gradita a chi governa (non sarà un caso se nell’entourage
di Bush non mancano i rappresentanti del complesso industriale militare)
e tende, comunque, a diminuire il tasso di democrazia. A questi vantaggi
le classi dirigenti dell’Occidente non sembrano intenzionate a rinunciare.
Che, alla fin fine, la distanza tra chi sta in alto e chi sta in
bassa sarà ancora più clamorosa è l’unico risultato che, allo stato delle
cose, si possa ragionevolmente prevedere.
04.11.’01