Giustificazioni realiste

La caccia | Trasmessa il: 12/09/2001



Un’intervista qualsiasi, nel GR3 mattina di mercoledì scorso, a uno dei tanti osservatori di cose centroasiatiche che in questi giorni di guerra fanno il giro delle varie redazioni.  Gli chiedono se c’è qualche probabilità che venga accettata la richiesta di amnistia per sé e per i suoi che il mullah Omar ha avanzato – sembra – come condizione per sgomberare Kandahar.   No, risponde l’esperto, non se ne parla nemmeno: un’amnistia a quello non gliela concederà proprio nessuno.  Ne ha fatte troppe e ormai ha chiuso.  Allora, prosegue l’intervistatore, lo vedremo sottoposto a un qualche tipo di processo internazionale?  Un processo? ribatte stupito l’intervistato.  Figuriamoci.  Non conviene a nessuno.  Lo faranno fuori in qualche modo, nel corso di un’azione militare.  E, senza ulteriori commenti, i due passano a discutere d’altro.
        Non è, questo che vi ho citato, un esempio di cinismo particolarmente sfrontato, da parte di un qualche feroce assertore del diritto del più forte e della necessità della vendetta.   I protagonisti di questo dialoghetto esemplare sono, con tutta evidenza, due persone per bene, che si sforzano, a differenza di tanti, di dire delle cose sensate.  Ma sono, o vogliono essere, “realisti”: due commentatori che sanno che in questi tempi non c’è spazio né per il perdono né per il diritto, che quando parlano le armi solo alle armi bisogna concedere la parola.  E non sembrano considerare di particolare importanza il fatto che perdono e diritto solitamente si annoverano, sul versante laico come su quello religioso, tra i fondamenti di quella civiltà in nome della quale, in teoria, si combatte.  Noi occidentali, stando al quadro valori che normalmente esibiamo, non dovremmo considerare con tanta tranquillità l’ipotesi di catturare un nemico e farlo fuori alla chetichella, facendo passare l’operazione come un inevitabile incidente occorso in combattimento.  Ma da queste preoccupazioni intervistatore e intervistato non sembrano neanche minimamente sfiorati.
        Mi direte che con gente come il mullah Omar e Bin Laden non è il caso di farsi degli scrupoli, per non dire che sottoporli a processo, oggi come oggi,  sarebbe troppo pericoloso.  Ma la ferocia, ahimè,  resiste a ogni razionalizzazione.   Anche se ce ne siamo già dimenticati, sono passate appena due settimane dal massacro del carcere di Mara-i-Sharif, in cui i nostri alleati afghani, con la collaborazione – si dice – dei reparti scelti americani e britannici, hanno massacrato non si sa quante centinaia di prigionieri di guerra, in barba a tutte le convenzioni di Ginevra e a tutte le norme del diritto di guerra.   Un episodio, va da sé, tra i più turpi e vergognosi di quanti ricordi la storia recente, che, pure, di massacri di inermi non è stata avara, e che, tuttavia, non sembra aver scandalizzato proprio nessuno.
Anzi.  Mai come in questo caso gli esperti si sono dimostrati accomodanti ed equanimi.  Provate a rileggere le brevi interviste pubblicate dal “Corriera della sera” un paio di giorni dopo i fatti (giovedì 30 novembre).  C’è gente, come tal Giorgio Rumi, cattolico (pare) e docente di storia contemporanea alla Statale di Milano, per cui l’unico problema sta nel rischio di “un moralismo un po’ astratto” da parte dei pochi che si sono scandalizzati, nel senso che è inutile mettersi “su una nuvoletta a giudicare l’umanità che si scanna”.  E c’è chi, senza giungere a tanto, si accontenta, per assolvere, soltanto di un precedente.  Così, per Giovanni Sabbatucci, i massacri e gli stupri sono soltanto un’inevitabile conseguenza della guerra:  “quando i sovietici invasero la Germania nel ’45 fecero letteralmente carne di porco ”, ma questa non è certo “una buona ragione per dire di no al loro intervento”.  E secondo Giovanni Belardelli, che insegna storia del pensiero politico a Perugia, il problema è ancora più semplice: “non sono stati gli Usa a cominciare” e, quanto alle atrocità dei mujaheddin, non c’era altra alternativa che lasciargliele commettere. Anche Paolo Mieli, in altra parte del giornale, scrive che “quel che è accaduto era facilmente prevedibile”, ma “le responsabilità dell’Occidente sono minime” e comunque di “risse tra soldati stranieri e civili, stupri, violenze, assassinii” ce ne furono anche in Puglia durante l’occupazione alleata dopo l’8 settembre del 1943.
 E così via. È sempre andata così, non si poteva fare altrimenti, in fondo se la sono voluta, non siamo stati noi a cominciare.   Il “realismo” dei nostri commentatori, si riduce, in ultima analisi, al piagnisteo con cui i bambini sorpresi ad azzuffarsi si difendono davanti al maestro.  Una volta affermato che “la colpa”, comunque, è dell’altro, e che il fine in ogni caso giustifica i mezzi, non sembra che costoro abbiano altro da dire.   La dura lex della guerra li esime da qualsiasi obbligo di umanità.   Nessuno si spinge a citare la sana consuetudine dei padri romani di strozzare i capi dei vinti dopo averli esibiti nel corteo trionfale, o i nomi dei tanti condottieri usi a passare a fil di spada gli abitanti delle città conquistate e a far seminare sale sulle rovine, ma è evidente che una certa nostalgia per quello stile di pensiero fa da sottofondo a tanto sottili argomentazioni.   Per “esperti” di questo genere, in definitiva, gli interrogativi morali sono soltanto delle ipocrite lamentazioni e l’unico modo di raggiungere gli obiettivi prefissi è quello di prestare orecchio alla bestia che è in noi.
Un tale “realismo” nasconde, naturalmente, la presunzione di essere sempre e comunque nel giusto, il che vuol dire che esprime, al tempo stesso,  il massimo dell’ipocrisia e quello dell’arroganza.  Da esso, amici miei, dobbiamo solo sforzarci di essere ostinatamente immuni.

Carlo Oliva, 09.12.’01