Un’intervista qualsiasi, nel GR3 mattina
di mercoledì scorso, a uno dei tanti osservatori di cose centroasiatiche
che in questi giorni di guerra fanno il giro delle varie redazioni. Gli
chiedono se c’è qualche probabilità che venga accettata la richiesta di
amnistia per sé e per i suoi che il mullah Omar ha avanzato – sembra –
come condizione per sgomberare Kandahar. No, risponde l’esperto,
non se ne parla nemmeno: un’amnistia a quello non gliela concederà proprio
nessuno. Ne ha fatte troppe e ormai ha chiuso. Allora, prosegue
l’intervistatore, lo vedremo sottoposto a un qualche tipo di processo
internazionale? Un processo? ribatte stupito l’intervistato. Figuriamoci.
Non conviene a nessuno. Lo faranno fuori in qualche modo, nel
corso di un’azione militare. E, senza ulteriori commenti, i due
passano a discutere d’altro.
Non
è, questo che vi ho citato, un esempio di cinismo particolarmente sfrontato,
da parte di un qualche feroce assertore del diritto del più forte e della
necessità della vendetta. I protagonisti di questo dialoghetto esemplare
sono, con tutta evidenza, due persone per bene, che si sforzano, a differenza
di tanti, di dire delle cose sensate. Ma sono, o vogliono essere,
“realisti”: due commentatori che sanno che in questi tempi non c’è spazio
né per il perdono né per il diritto, che quando parlano le armi solo alle
armi bisogna concedere la parola. E non sembrano considerare di particolare
importanza il fatto che perdono e diritto solitamente si annoverano, sul
versante laico come su quello religioso, tra i fondamenti di quella civiltà
in nome della quale, in teoria, si combatte. Noi occidentali, stando
al quadro valori che normalmente esibiamo, non dovremmo considerare con
tanta tranquillità l’ipotesi di catturare un nemico e farlo fuori alla
chetichella, facendo passare l’operazione come un inevitabile incidente
occorso in combattimento. Ma da queste preoccupazioni intervistatore
e intervistato non sembrano neanche minimamente sfiorati.
Mi
direte che con gente come il mullah Omar e Bin Laden non è il caso di farsi
degli scrupoli, per non dire che sottoporli a processo, oggi come oggi,
sarebbe troppo pericoloso. Ma la ferocia, ahimè, resiste
a ogni razionalizzazione. Anche se ce ne siamo già dimenticati,
sono passate appena due settimane dal massacro del carcere di Mara-i-Sharif,
in cui i nostri alleati afghani, con la collaborazione – si dice – dei
reparti scelti americani e britannici, hanno massacrato non si sa quante
centinaia di prigionieri di guerra, in barba a tutte le convenzioni di
Ginevra e a tutte le norme del diritto di guerra. Un episodio, va
da sé, tra i più turpi e vergognosi di quanti ricordi la storia recente,
che, pure, di massacri di inermi non è stata avara, e che, tuttavia, non
sembra aver scandalizzato proprio nessuno.
Anzi. Mai come in questo caso
gli esperti si sono dimostrati accomodanti ed equanimi. Provate a
rileggere le brevi interviste pubblicate dal “Corriera della sera” un
paio di giorni dopo i fatti (giovedì 30 novembre). C’è gente, come
tal Giorgio Rumi, cattolico (pare) e docente di storia contemporanea alla
Statale di Milano, per cui l’unico problema sta nel rischio di “un moralismo
un po’ astratto” da parte dei pochi che si sono scandalizzati, nel senso
che è inutile mettersi “su una nuvoletta a giudicare l’umanità che si
scanna”. E c’è chi, senza giungere a tanto, si accontenta, per
assolvere, soltanto di un precedente. Così, per Giovanni Sabbatucci,
i massacri e gli stupri sono soltanto un’inevitabile conseguenza della
guerra: “quando i sovietici invasero la Germania nel ’45 fecero
letteralmente carne di porco ”, ma questa non è certo “una buona ragione
per dire di no al loro intervento”. E secondo Giovanni Belardelli,
che insegna storia del pensiero politico a Perugia, il problema è ancora
più semplice: “non sono stati gli Usa a cominciare” e, quanto alle atrocità
dei mujaheddin, non c’era altra alternativa che lasciargliele commettere.
Anche Paolo Mieli, in altra parte del giornale, scrive che “quel che è
accaduto era facilmente prevedibile”, ma “le responsabilità dell’Occidente
sono minime” e comunque di “risse tra soldati stranieri e civili, stupri,
violenze, assassinii” ce ne furono anche in Puglia durante l’occupazione
alleata dopo l’8 settembre del 1943.
E così via. È sempre andata così,
non si poteva fare altrimenti, in fondo se la sono voluta, non siamo stati
noi a cominciare. Il “realismo” dei nostri commentatori, si riduce,
in ultima analisi, al piagnisteo con cui i bambini sorpresi ad azzuffarsi
si difendono davanti al maestro. Una volta affermato che “la colpa”,
comunque, è dell’altro, e che il fine in ogni caso giustifica i mezzi,
non sembra che costoro abbiano altro da dire. La dura lex della
guerra li esime da qualsiasi obbligo di umanità. Nessuno si spinge
a citare la sana consuetudine dei padri romani di strozzare i capi dei
vinti dopo averli esibiti nel corteo trionfale, o i nomi dei tanti condottieri
usi a passare a fil di spada gli abitanti delle città conquistate e a far
seminare sale sulle rovine, ma è evidente che una certa nostalgia per quello
stile di pensiero fa da sottofondo a tanto sottili argomentazioni.
Per “esperti” di questo genere, in definitiva, gli interrogativi morali
sono soltanto delle ipocrite lamentazioni e l’unico modo di raggiungere
gli obiettivi prefissi è quello di prestare orecchio alla bestia che è
in noi.
Un tale “realismo” nasconde, naturalmente,
la presunzione di essere sempre e comunque nel giusto, il che vuol dire
che esprime, al tempo stesso, il massimo dell’ipocrisia e quello
dell’arroganza. Da esso, amici miei, dobbiamo solo sforzarci di
essere ostinatamente immuni.
Carlo Oliva, 09.12.’01