Il Ministro di Grazia e Giustizia e
il Direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria hanno
commentato entrambi la notizia del vergognoso pestaggio nel carcere di
Sassari dicendo che era una gran brutta cosa, ma che non significava, naturalmente,
che tutti gli agenti di polizia carceraria fossero, in sé e per sé, dei
picchiatori. Alzi la mano chi non si aspettava un commento del genere.
E alzi la mano chi non ha colto, in quelle parole, tanto ovvie da
sfiorare la banalità, perché in uno stato di diritto chiunque è imputato
di una mala azione lo è a titolo personale, e non coinvolge la categoria
cui appartiene, un’eco di quelle scuse non richieste che in novantanove
casi su cento si risolvono in manifeste accuse. Fassino, in particolare,
con l’ingenuità di chi è nuovo del mestiere – in effetti era in carica
da non più di tre giorni – si è abbandonato a una descrizione talmente
pietistica delle condizioni di vita del personale carcerario, tutta brava
gente, che adempie con spirito di sacrificio a un servizio duro e sgradevole,
cui pochissimi altri connazionali sarebbero disposti a prestarsi, e per
di più viene pagata pochissimo, da far capire a chiunque che, a suo avviso,
quelle condizioni bastavano e avanzavano a giustificare una diffusa tendenza
a menare le mani. Come se chi fa un lavoro duro e sgradevole avesse
il diritto non a essere meglio pagato, ma a sfogarsi come può su chi gli
sta a tiro.
Ora, è inutile far notare, come altri
hanno fatto, che i carcerati non sono in genere degli angioletti, ma individui
pericolosi e violenti: è un’osservazione, questa, che, tanto per cominciare,
non vale per tutti, ma che anche se lo valesse sarebbe lo stesso un’ovvietà,
visto che appunto per questo in carcere li si tiene rinchiusi. È
altrettanto ovvio che a custodire siffatte persone dovrebbe essere chiamato
e addestrato del personale in grado di mantenere ben saldo il controllo
dei propri nervi e che se ciò non avviene la responsabilità non può che
ricadere su chi in tal senso non provvede. Ecco perché le parole
di Fassino e Caselli, che in quel delicato settore rivestono la massima
responsabilità politica e amministrativa, sono suonate tanto sgradevoli:
accusando implicitamente, pur con tutte le possibili attenuanti, coloro
che pretendevano di difendere, miravano, innanzitutto, a difendere se stessi.
Se stessi e, naturalmente, il sistema di cui sono a capo, un sistema
in cui gli agenti di custodia non sono, notoriamente, che l’ultima ruota
del carro. E in effetti sono bastati due giorni d’indagini per scoprire
che il turpe episodio di Sassari (in cui non a caso, oltre agli agenti,
sono coinvolti funzionari di ben più alto livello) non rappresentava un
exploit casuale, uno scatto di nervi, l’improvvida iniziativa di un gruppo
di teste calde casualmente concentrate in una sede disagiata, ma è stato
– al contrario – l’effetto di una politica, la manifestazione di una
tendenza voluta e diffusa.
Di tutto questo, naturalmente, un ministro
appena entrato in carica non ha personali responsabilità. Ma certo
è un peccato che l’on. Fassino, con quella presa di posizione, abbia gettato
al vento quello che in molti consideravamo il suo principale atout per
un felice esercizio del ruolo di Ministro Guardasigilli: l’essere, in
sostanza, un perfetto nuovo venuto, assolutamente estraneo, a differenza
del Direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, alla
precedente gestione del sistema giudiziario nazionale. Di questa
felice verginità avrebbe potuto farsi forza e usbergo. Ha preferito
non farlo e ha perso, così, un’ottima occasione per stare zitto.
07.05.’00