Giustificazioni

La caccia | Trasmessa il: 05/07/2000



Il Ministro di Grazia e Giustizia e il Direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria hanno commentato entrambi la notizia del vergognoso pestaggio nel carcere di Sassari dicendo che era una gran brutta cosa, ma che non significava, naturalmente, che tutti gli agenti di polizia carceraria fossero, in sé e per sé, dei picchiatori.  Alzi la mano chi non si aspettava un commento del genere.   E alzi la mano chi non ha colto, in quelle parole, tanto ovvie da sfiorare la banalità, perché in uno stato di diritto chiunque è imputato di una mala azione lo è a titolo personale, e non coinvolge la categoria cui appartiene, un’eco di quelle scuse non richieste che in novantanove casi su cento si risolvono in manifeste accuse.   Fassino, in particolare, con l’ingenuità di chi è nuovo del mestiere – in effetti era in carica da non più di tre giorni – si è abbandonato a una descrizione talmente pietistica delle condizioni di vita del personale carcerario, tutta brava gente, che adempie con spirito di sacrificio a un servizio duro e sgradevole, cui pochissimi altri connazionali sarebbero disposti a prestarsi, e per di più viene pagata pochissimo, da far capire a chiunque che, a suo avviso, quelle condizioni bastavano e avanzavano a giustificare una diffusa tendenza a menare le mani.   Come se chi fa un lavoro duro e sgradevole avesse il diritto non a essere meglio pagato, ma a sfogarsi come può su chi gli sta a tiro.
Ora, è inutile far notare, come altri hanno fatto, che i carcerati non sono in genere degli angioletti, ma individui pericolosi e violenti: è un’osservazione, questa, che, tanto per cominciare, non vale per tutti, ma che anche se lo valesse sarebbe lo stesso un’ovvietà, visto che appunto per questo in carcere li si tiene rinchiusi.  È altrettanto ovvio che a custodire siffatte persone dovrebbe essere chiamato e addestrato del personale in grado di mantenere ben saldo il controllo dei propri nervi e che se ciò non avviene la responsabilità non può che ricadere su chi in tal senso non provvede.  Ecco perché le parole di Fassino e Caselli, che in quel delicato settore rivestono la massima responsabilità politica e amministrativa, sono suonate tanto sgradevoli: accusando implicitamente, pur con tutte le possibili attenuanti, coloro che pretendevano di difendere, miravano, innanzitutto, a difendere se stessi.  Se stessi e, naturalmente, il sistema di cui sono a capo, un sistema in cui gli agenti di custodia non sono, notoriamente, che l’ultima ruota del carro.  E in effetti sono bastati due giorni d’indagini per scoprire che il turpe episodio di Sassari (in cui non a caso, oltre agli agenti, sono coinvolti funzionari di ben più alto livello) non rappresentava un exploit casuale, uno scatto di nervi, l’improvvida iniziativa di un gruppo di teste calde casualmente concentrate in una sede disagiata, ma è stato – al contrario – l’effetto di una politica, la manifestazione di una tendenza voluta e diffusa.
Di tutto questo, naturalmente, un ministro appena entrato in carica non ha personali responsabilità.   Ma certo è un peccato che l’on. Fassino, con quella presa di posizione, abbia gettato al vento quello che in molti consideravamo il suo principale atout per un felice esercizio del ruolo di Ministro Guardasigilli: l’essere, in sostanza, un perfetto nuovo venuto, assolutamente estraneo, a differenza del Direttore del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, alla precedente gestione del sistema giudiziario nazionale.   Di questa felice verginità avrebbe potuto farsi forza e usbergo.  Ha preferito non farlo e ha perso, così, un’ottima occasione per stare zitto.

07.05.’00