Una premessa d’obbligo. Sono
assolutamente convinto che l’ex presidente serbo Slobodan Milosevic meriti
ad abundantiam l’ergastolo cui sicuramente lo condannerà il Tribunale
internazionale per i crimini di guerra nell’ex Jugoslavia. Non si
può fare una carriera come la sua, e in quella parte del mondo, senza sporcarsi
largamente le mani di sangue ed è poco ma sicuro che se tutti coloro che
si sporcano le mani con il sangue degli altri venissero adeguatamente giudicati
e puniti il nostro sarebbe un pianeta molto più piacevole in cui abitare.
Era,
vi ho detto, una premessa d’obbligo. Dopo la quale, devo confessarvi
di essere parimenti convinto che il processo che si sta celebrando all’Aja,
senza suscitare nei commentatori più qualificati, compreso quelli di Radio
Popolare, altro che parole di plauso, o, tutt’al più, di imbarazzato consenso,
rappresenta un’infamia giuridica e morale di cui, presto o tardi, dovremo
pagare il prezzo. E non soltanto perché c’è il problema di quel
“tutti”, che impedisce di dire che si sta facendo giustizia quando si
procede contro qualcuno e ci si rifiuta di procedere contro qualcun altro
che, negli stessi eventi, ha avuto analoghe responsabilità e comportamenti
simili. Non soltanto perché la pretesa di scaricare sul solo Milosevic
tutte le colpe dei carnaio jugoslavo è tanto assurda sul piano giuridico
quanto lo è quella di affibbiarle alla sola Serbia dal punto di vista storico
e politico. Non soltanto perché, in casi del genere, quando ci si
accanisce su un singolo e si chiudono gli occhi di fronte al quadro d’insieme
è difficile sfuggire all’impressione di stare cercando una vittima sacrificale.
O, se preferite, un capro espiatorio.
Il
fatto è che i tribunali di questo tipo, per quanto possano prendere di
mira i figuri peggiori, per quanto orribili siano le colpe dei loro imputati,
non possono, di necessità, sottrarsi a una contraddizione di fondo. A
un tribunale si chiede, nella nostra cultura giuridica, un’imprescindibile
condizione preliminare: quella dell’imparzialità. E non si riesce
a capire, con tutta la buona volontà di questa terra, di quale imparzialità
possa ammantarsi una struttura che, dopo un conflitto qualsiasi, esprime
comunque il punto di vista dei vincitori rispetto ai vinti. Perché,
naturalmente, non esiste in questo mondo travagliato un’autorità super
partes che abbia il potere di dirimere i conflitti tra stati e per portare
un potente di fronte a una corte internazionale bisogna, in via preliminare,
privarlo della sua potenza, come a dire che prima bisogna sconfiggerlo,
com’è stato sconfitto Milosevic sul piano militare e su quello politico.
In caso contrario, il giudizio, per severo che sia, sarà sempre discutibile
e irrilevante. Quando i vincitori processano i vinti lo fanno, soprattutto,
per assolvere se stessi.
E
non venitemi a dire, vi prego, che questo Tribunale dell’Aja, in quanto
emanazione dell’ONU, non esprime unilateralmente il punto di vista di
chi ha combattuto e vinto la guerra contro la Serbia, e quindi non ha nulla
a che fare, tanto per citare i precedenti storici più noti, con i modelli
di Norimberga e di Tokyo. Sappiamo benissimo che questa specifica
corte, per quanto formalmente patrocinata dalle Nazioni Unite (la cui terziarietà
rispetto ai conflitti mondiali è comunque tutta da dimostrare), è stato
fortissimamente auspicata e voluta dalla Nato e dalla sua potenza egemone,
gli Stati Uniti, che – in effetti – ne coprono largamente le spese, a
differenza di quanto fanno con quelle strutture dell’ONU sul cui operato,
per un motivo o per l’altro, il governo di Washington ha qualcosa da ridire.
E sono stati i paesi della Nato, Stati Uniti in testa (e Italia in
coda), a condurre contro la Jugoslavia quell’attacco che, oltre a un certo,
trascurabile numero di vittime collaterali, ha provocato la caduta di Milosevic.
Un’aggressione, come ricorderete, condotta in prima persona, senza
autorizzazione né avallo delle Nazioni Unite. Che poi la principale
responsabilità dell’accusa in quella sede sia stata affidato alla cittadina
di un paese formalmente neutrale è poco più di un’ipocrisia diplomatica.
Quella persona ha già dimostrato la sua non neutralità quando si
è rifiutata di prendere in considerazione le accuse mosse contro la Nato
e contro gli Stati Uniti.
Stando
così le cose, mi permetterete di conciliare la mia scarsa simpatia con
Milosevic con l’espressione del più profondo disgusto per quanto gli stanno
facendo. Non è, lo ammetto, una posizione simpatica. Ma, che
volete, l’alternativa è una sola, quella scelta, a quanto pare, da tutte
le forze politiche nazionali e da tutti i grandi mezzi di informazione:
chinare disciplinatamente la testa di fronte ai desiderata dei nostri padroni
americani. Dalla quale incombenza chiedo, con umile fermezza, di
essere esonerato.
* * *
Oh, a proposito, visto che stiamo parlando
di tribunali e di giudici, permettetemi, in questi giorni di festa in cui
la sinistra (o quanto ne resta) celebra nostalgicamente il decennale di
Mani Pulite, di ricordare, visto che a una settimana di distanza non li
ricorda più nessuno, i giovani compagni del Leoncavallo, condannati in
via definitiva da una Cassazione ben decisa a confermare l’impianto accusatorio
elaborato e voluto negli uffici della procura di Milano. E di rivolgere,
già che ci siamo, un pensiero a Ovidio Bompressi, che si è ritrovato a
rischiare la pelle in galera insieme ad Adriano Sofri, in seguito al ben
noto iter giudiziario in cui la parte della pubblica accusa milanese è
stata, se non esclusiva, certo molto rilevante. Tanto è vero che
una delle motivazioni con cui il Guardasigilli Castelli ha insabbiato,
mesi fa, la sua domanda di grazia (e si trattava dell’unica motivazione
di un qualche peso formale) riguardava il parere negativo espresso in proposito
dalla Procura Generale di Milano. Sembra che il dott. Borrelli, nel
frattempo, abbia cambiato idea, ma, nel concreto, quello che resta agli
atti, fino a prova contraria, è il suo no.
Questo,
non per svilire la nobiltà della battaglia dei magistrati milanesi o per
mettere in qualche modo in dubbio il valore della loro lotta per la democrazia.
Dio ne scampi. Non intendo nemmeno mettere in discussione lo
zelo con cui i colleghi della radio stanno dando fiato alle trombe della
celebrazione: i decennali sono fatti apposta per essere celebrati e, visto
lo stato in cui si trova il paese, ciascuno celebra quello che può.
No: il mio unico intento è quello di affermare una modesta, ma sentitissima,
convinzione: quella che quando si tratta di tribunali non bisogna mai fidarsi
fino in fondo. Perché, tanto per cominciare, non sono mai riuscito
a liberarmi da quella vecchia analisi per cui, nello stato borghese (ohibò!)
la “giustizia” resta comunque un fatto d classe. E poi perché,
con il tempo, mi sono persuaso che, sempre in materia giudiziaria, la dialettica
vincitore vinto non riguarda soltanto i tribunali internazionali.
Non è il caso di generalizzare, naturalmente.
Entrambe le affermazioni di cui sopra vanno prese, come si dice,
cum grano salis. “Giustizia di classe” è un’espressione di carattere
affatto generale, non significa di necessità una struttura giudiziaria
ossequiosa fino all’illecito verso i ricchi e i potenti. Con i potenti,
come si è visto, i magistrati possono anche litigare, se si dà il caso,
per difendere se stessi e il proprio ruolo, le proprie convinzioni e il
proprio lavoro. Il che non toglie che con gli sconfitti, intendendo
per tali anche le forze sociali e le correnti ideologiche che non godono,
al momento, dei favori della storia, si possa, come dire, andar giù un
po’ pesanti. Il saggio giudica caso per caso, ma farà meglio a non
lasciarsi prendere dall’entusiasmo. Ci sono materie in cui è sempre
meglio non rinunciare a qualche igienico dubbio.
17.02.’02