Giudici e tribunali

La caccia | Trasmessa il: 02/17/2002



Una premessa d’obbligo.  Sono assolutamente convinto che l’ex presidente serbo Slobodan Milosevic meriti ad abundantiam l’ergastolo cui sicuramente lo condannerà il Tribunale internazionale per i crimini di guerra nell’ex Jugoslavia.  Non si può fare una carriera come la sua, e in quella parte del mondo, senza sporcarsi largamente le mani di sangue ed è poco ma sicuro che se tutti coloro che si sporcano le mani con il sangue degli altri venissero adeguatamente giudicati e puniti il nostro sarebbe un pianeta molto più piacevole in cui abitare.
        Era, vi ho detto, una premessa d’obbligo.  Dopo la quale, devo confessarvi di essere parimenti convinto che il processo che si sta celebrando all’Aja, senza suscitare nei commentatori più qualificati, compreso quelli di Radio Popolare, altro che parole di plauso, o, tutt’al più, di imbarazzato consenso, rappresenta un’infamia giuridica e morale di cui, presto o tardi, dovremo pagare il prezzo.  E non soltanto perché c’è il problema di quel “tutti”, che impedisce di dire che si sta facendo giustizia quando si procede contro qualcuno e ci si rifiuta di procedere contro qualcun altro che, negli stessi eventi, ha avuto analoghe responsabilità e comportamenti simili.  Non soltanto perché la pretesa di scaricare sul solo Milosevic tutte le colpe dei carnaio jugoslavo è tanto assurda sul piano giuridico quanto lo è quella di affibbiarle alla sola Serbia dal punto di vista storico e politico.   Non soltanto perché, in casi del genere, quando ci si accanisce su un singolo e si chiudono gli occhi di fronte al quadro d’insieme è difficile sfuggire all’impressione di stare cercando una vittima sacrificale.  O, se preferite, un capro espiatorio.
        Il fatto è che i tribunali di questo tipo, per quanto possano prendere di mira i figuri peggiori, per quanto orribili siano le colpe dei loro imputati, non possono, di necessità, sottrarsi a una contraddizione di fondo.  A un tribunale si chiede, nella nostra cultura giuridica, un’imprescindibile condizione preliminare: quella dell’imparzialità.  E non si riesce a capire, con tutta la buona volontà di questa terra, di quale imparzialità possa ammantarsi una struttura che, dopo un conflitto qualsiasi, esprime comunque il punto di vista dei vincitori rispetto ai vinti.  Perché, naturalmente, non esiste in questo mondo travagliato un’autorità super partes che abbia il potere di dirimere i conflitti tra stati e per portare un potente di fronte a una corte internazionale bisogna, in via preliminare, privarlo della sua potenza, come a dire che prima bisogna sconfiggerlo, com’è stato sconfitto Milosevic sul piano militare e su quello politico.  In caso contrario, il giudizio, per severo che sia, sarà sempre discutibile e irrilevante.  Quando i vincitori processano i vinti lo fanno, soprattutto, per assolvere se stessi.
        E non venitemi a dire, vi prego, che questo Tribunale dell’Aja, in quanto emanazione dell’ONU, non esprime unilateralmente il punto di vista di chi ha combattuto e vinto la guerra contro la Serbia, e quindi non ha nulla a che fare, tanto per citare i precedenti storici più noti, con i modelli di Norimberga e di Tokyo.  Sappiamo benissimo che questa specifica corte, per quanto formalmente patrocinata dalle Nazioni Unite (la cui terziarietà rispetto ai conflitti mondiali è comunque tutta da dimostrare), è stato fortissimamente auspicata e voluta dalla Nato e dalla sua potenza egemone, gli Stati Uniti, che – in effetti – ne coprono largamente le spese, a differenza di quanto fanno con quelle strutture dell’ONU sul cui operato, per un motivo o per l’altro, il governo di Washington ha qualcosa da ridire.  E sono stati i paesi della Nato, Stati Uniti in testa (e Italia in coda), a condurre contro la Jugoslavia quell’attacco che, oltre a un certo, trascurabile numero di vittime collaterali, ha provocato la caduta di Milosevic.  Un’aggressione, come ricorderete, condotta in prima persona, senza autorizzazione né avallo delle Nazioni Unite.  Che poi la principale responsabilità dell’accusa in quella sede sia stata affidato alla cittadina di un paese formalmente neutrale è poco più di un’ipocrisia diplomatica.  Quella persona ha già dimostrato la sua non neutralità quando si è rifiutata di prendere in considerazione le accuse mosse contro la Nato e contro gli Stati Uniti.
        Stando così le cose, mi permetterete di conciliare la mia scarsa simpatia con Milosevic con l’espressione del più profondo disgusto per quanto gli stanno facendo.  Non è, lo ammetto, una posizione simpatica.  Ma, che volete, l’alternativa è una sola, quella scelta, a quanto pare, da tutte le forze politiche nazionali e da tutti i grandi mezzi di informazione: chinare disciplinatamente la testa di fronte ai desiderata dei nostri padroni americani.  Dalla quale incombenza chiedo, con umile fermezza, di essere esonerato.


* * *


Oh, a proposito, visto che stiamo parlando di tribunali e di giudici, permettetemi, in questi giorni di festa in cui la sinistra (o quanto ne resta) celebra nostalgicamente il decennale di Mani Pulite, di ricordare, visto che a una settimana di distanza non li ricorda più nessuno, i giovani compagni del Leoncavallo, condannati in via definitiva da una Cassazione ben decisa a confermare l’impianto accusatorio elaborato e voluto negli uffici della procura di Milano.  E di rivolgere, già che ci siamo, un pensiero a Ovidio Bompressi, che si è ritrovato a rischiare la pelle in galera insieme ad Adriano Sofri, in seguito al ben noto iter giudiziario in cui la parte della pubblica accusa milanese è stata, se non esclusiva, certo molto rilevante.  Tanto è vero che una delle motivazioni con cui il Guardasigilli Castelli ha insabbiato, mesi fa, la sua domanda di grazia (e si trattava dell’unica motivazione di un qualche peso formale) riguardava il parere negativo espresso in proposito dalla Procura Generale di Milano.  Sembra che il dott. Borrelli, nel frattempo, abbia cambiato idea, ma, nel concreto, quello che resta agli atti, fino a prova contraria, è il suo no.
        Questo, non per svilire la nobiltà della battaglia dei magistrati milanesi o per mettere in qualche modo in dubbio il valore della loro lotta per la democrazia.  Dio ne scampi.  Non intendo nemmeno mettere in discussione lo zelo con cui i colleghi della radio stanno dando fiato alle trombe della celebrazione: i decennali sono fatti apposta per essere celebrati e, visto lo stato in cui si trova il paese, ciascuno celebra quello che può.   No: il mio unico intento è quello di affermare una modesta, ma sentitissima, convinzione: quella che quando si tratta di tribunali non bisogna mai fidarsi fino in fondo.   Perché, tanto per cominciare, non sono mai riuscito a liberarmi da quella vecchia analisi per cui, nello stato borghese (ohibò!) la “giustizia” resta comunque un fatto d classe.  E poi perché, con il tempo, mi sono persuaso che, sempre in materia giudiziaria, la dialettica vincitore vinto non riguarda soltanto i tribunali internazionali.
Non è il caso di generalizzare, naturalmente.  Entrambe le affermazioni di cui sopra vanno prese, come si dice, cum grano salis.   “Giustizia di classe” è un’espressione di carattere affatto generale, non significa di necessità una struttura giudiziaria ossequiosa fino all’illecito verso i ricchi e i potenti.  Con i potenti, come si è visto, i magistrati possono anche litigare, se si dà il caso, per difendere se stessi e il proprio ruolo, le proprie convinzioni e il proprio lavoro.  Il che non toglie che con gli sconfitti, intendendo per tali anche le forze sociali e le correnti ideologiche che non godono, al momento, dei favori della storia, si possa, come dire, andar giù un po’ pesanti.  Il saggio giudica caso per caso, ma farà meglio a non lasciarsi prendere dall’entusiasmo.  Ci sono materie in cui è sempre meglio non rinunciare a qualche igienico dubbio.

17.02.’02