Avrete sicuramente notato anche voi come i quotidiani siano sempre più
uguali tra loro e il fenomeno si accentui man mano che cresce il livello
di concorrenza tra le testate. Il “Corriere della sera” e la “Repubblica”
– per restare ai maggiori – da un po’ sembrano impegnati in uno sforzo
di emulazione reciproca: hanno la stessa linea politica, offrono,
più o meno, gli stessi inserti, le stesse enciclopedie, le stesse storie
d’Italia e le stesse collane di classici e gli capita sempre più spesso
di uscire con gli stessi titoli di prima pagina, o quasi. Da quando,
lo scorso luglio, il “Corriere” ha rimpicciolito il formato, anche quella
differenza si è attenuata parecchio. E se i responsabili marketing
dei rispettivi gruppi avranno le loro ragioni, così a occhio il fenomeno
non sembra poter giovare un granché all’informazione giornalistica complessiva.
È un campo, questo, in cui dell’uniformità diffusa è meglio diffidare.
Un esempio. Era normale che mercoledì
scorso entrambi i giornali riferissero della decisione del direttore dell’istituto
comprensivo “Cadorna” di Milano di invitare le famiglie degli alunni
musulmani intenzionati a seguire i precetti del Ramadan a tenere a casa
i bambini per il mese in corso, perché non soffrissero della necessità
di digiunare mentre i loro condiscepoli si abboffavano allegramente in
mensa. La notizia c’era e andava data. Ma è abbastanza curioso,
lo ammetterete, che tutti e due abbiano affidato il commento a un collaboratore
di patente estrazione islamica (perché in ogni redazione che si rispetti
c’è un collaboratore islamico, il cui compito, di solito, è quello di
riferire dei problemi del Medio Oriente nel modo più conforme possibile
al pensiero di Bush) e che costoro abbiano sviluppato delle argomentazioni,
se non identiche, affatto convergenti.
Così, sul “Corriere” il noto Magdi
Allam spiega che “costringere dei bambini di otto-dieci anni a digiunare
a scuola” è “un atto incivile, perché da quell’obbligo sono esentati
“i malati, i deboli, gli anziani, i viaggiatori” e quanti non abbiano
raggiunto la pubertà, un’età sulla cui determinazione le varie scuole
islamiche non concordano, ma si situa comunque ben al di sopra dei dieci
anni. E cita molti pii musulmani di oggi, imam, ministri e affini,
che testimoniamo in merito, ricordando le loro esperienze personali, esempio
di un “islam interiore, civile, moderato, pragmatico” che “fa primeggiare
il valore della vita sull’ideologia” e coincide, quindi, con “la coraggiosa
iniziativa laica” del preside milanese, in cui l’articolista legge, com’è
suo costume, un invito implicito “a non cedere a quanti in Italia, anche
sulla pelle dei bambini, vorrebbero imporre un islam disumano e violento”.
Su “Repubblica”, invece, il suo omonimo Khaled Fouad Allam, si
limita a ricordare la propria infanzia, quando si sapeva che “i bambini
devono crescere” e hanno bisogno di “un equilibrio alimentare durante
la giornata”, per cui mai gli si sarebbe imposto un mese intero di digiuno:
l’avvio dei piccoli musulmani agli obblighi del Ramadan rappresentava
una sorta di rito di iniziazione al mondo adulto, aveva carattere progressivo
(cominciando, nei ricordi dell’autore, con tre giorni a otto anni) e comportava
una certa solennità familiare, esplicitata da un regalo importante. “Il
mondo musulmano oggi” invece “è ossessionato da una ritualità che si
è separata dalla sua cultura tradizionale”, i suoi esponenti, specie nella
diaspora “tendono a identificarsi esclusivamente nel rito”, manca in
loro “tutto quel versante di critica e duttilità grazie al quale le regole
si adattano alle condizioni di vita e alle contingenze”, il che “li rende
ossessionati” di “un’identità che confonde la religione con un insieme
di regole e divieti”.
Parole sante, verrebbe da dire. Sono
considerazioni, specie quelle dell’Allam di “Repubblica”, che trovo
assai ragionevoli e non mi dispiacerebbe se, mutatis mutandis, qualcuno
indirizzasse rilievi simili a certi cristiani, tipo Ratzinger e Ruini,
che sulla identificazione della religione con un insieme di regole e divieti
non sembrano avere granché da ridire. Eppure… eppure , forse sbaglierò,
ma in questo fiorire di laicismo illuminista sui due maggiori quotidiani
italiani, mi sembra di avvertire una nota falsa. È come se quelle
considerazioni, in sé pregevoli, siano mal collocate e quei discorsi
siano troppo belli per l’occasione che li ha suscitati.
Perché, scusate, che cosa corrisponde
– nel concreto – a questa esaltazione quasi volterrana della tolleranza
e della duttilità in campo ideologico? Corrisponde un atto amministrativo,
con cui le autorità scolastiche competenti si sono liberate di un problema
che, quali che fossero le sue cause, esisteva e non era di piccolo conto.
E a parte il fatto che la tolleranza e la duttilità non si impongono
a suon di circolari del Preside, rimuovere un problema non significa mai
risolverlo. I bambini che celebrano il Ramadan creano imbarazzo e
disturbo psicologico a sé e agli altri? Benissimo: se ne vadano e
non se ne parli più. Se vogliono ritornare non devono far altro,
loro e i loro genitori, che adeguarsi.
Vi sembra un’esagerazione? Be’,
è la procedura standard che la nostra civile città adotta, ormai, nei confronti
della sua cospicua comunità islamica. Pensate a quel che è successo
nel caso della scuola di via Quaranta. Diamo pure per vero tutto
quel che si è detto sull’impraticabilità igienica, culturale e pedagogica
di quell’istituzione: resta il fatto che niente hanno saputo fare le autorità
se non chiuderla e invitare gli alunni ad andare alla scuola pubblica,
sulle cui virtù di aggregazione e integrazione si sono sentiti i più commuoventi
discorsi, magari a opera degli stessi messeri che si battono perché alle
famiglie cattoliche siano garantiti a spese dello stato quegli “assegni
di studio” che gli consentono di mandare i figli nella scuola confessionale
di loro scelta. Anche in questo caso, dunque, una lezione di laicismo
valida solo per gli altri e impartita sempre a suon di divieti.
D’altro canto non sembra che la nostra
città senta una gran responsabilità nei confronti di quegli immigrati.
A Milano, dove vige un’antica tradizione di intervento municipale
a favore delle istituzioni comunitarie, i musulmani non dispongono – che
io sappia – né di una moschea degna di questo nome, né di un centro culturale,
un’associazione ricreativa o qualsiasi altra struttura pubblica concepita
per facilitarne l’integrazione. La grande, generosa Milano non ritiene
di avere obblighi in merito. Ha bisogno di questi nuovi cittadini,
del loro contributo allo sviluppo comune, ma delle loro necessità culturali
e spirituali non crede doversi far carico. Cazzi loro, come si dice.
Se poi, com’è successo nei casi che abbiamo visto oggi, qualcuno
decide di rimandare moglie e figli in Egitto o in Marocco, restando solo
lui a lavorare, tanto meglio. Per molti milanesi, forse per la maggioranza,
quella di ridurre gli immigrati a Gastarbeiter senza famiglia (e
senza i relativi costi sociali) sarebbe, probabilmente, la soluzione ideale.
È un quadro, lo ammetterete, già abbastanza
brutto. Ma certe prediche interessate sulla tolleranza, la moderazione
e la duttilità (altrui) lo rendono ancora più sgradevole, come succede
sempre quando al danno della discriminazione si aggiunge la beffa dell’ipocrisia.