Non so se voi apprezziate le telenovelas.
Liberissimi, naturalmente, ma io, per conto mio, le detesto: anzi,
se c’è una cosa che non mi stancherò mai di deplorare è proprio
la progressiva, inarrestabile, telenovellizzazione cui mi sembrano sottoposte
tutte le forme di intrattenimento narrativo in televisione, a partire dalle
mie predilette serie di telefilm polizieschi. La narrativa, dal
mio punto di vista, richiede soprattutto una trama robusta, e quando gli
autori rinunciano del tutto alla trama, perché il loro unico problema è
quello di sfruttare tutte le possibili forme di relazioni interpersonali
tra i personaggi, non può conseguirne che ripetitività e tedio. Qualcosa
del genere, come senz’altro ricorderete, aveva scritto Aristotele a proposito
della maggior importanza, nella tragedia, del mthos rispetto agli altri
elementi drammatici, ma non voglio metterla giù troppo difficile. Dirò
semplicemente che nelle telenovelas, di solito, la conclusione è troppo
prevedibile perché l’intreccio sia davvero interessante.
Ma
non mi sono mai imbattuto, nella mia lunga carriera di spettatore annoiato,
in una telenovela così scialba, tediosa e – soprattutto – prevedibile
quanto quella della nomina del nuovo Consiglio di Amministrazione della
RAI. Sono state, lo ammetterete, due settimane insopportabili. Quattordici
giorni di cronache e indiscrezioni giornalistiche, di finti dibattiti e
di pseudoeditoriali, di scambi di male parole mielate e di comunicati più
o meno accuratamente calibrati tra le più alte cariche dello Stato, compreso
– ahimè – il Presidente della Repubblica. Due settimane di incontri
annunciati e mancati, di lettere riservate il cui contenuto era noto a
chiunque, di impegni chiaramente mendaci, di moniti solenni pronunciati,
con tutta evidenza, al solo scopo di dar aria alla bocca, di intrighi meschini
e di ridicole rodomontate, il tutto per giungere allo scontato, prevedibilissimo,
esito cui abbiamo finalmente assistito. Tre posti al Polo, che ha
la maggioranza e intende servirsene per riorganizzare il servizio pubblico
in vista dei propri interessi privati, e due all’Ulivo, che senza non
avrebbe proprio potuto vivere, nel senso che si può anche star fuori dal
governo, se proprio non se ne può fare a meno, ma fuori dalla RAI proprio
no, anche se non si capisce bene che cosa ci staranno a fare in quella
sede quei due meschinetti.
Alzi
la mano chiunque avesse previsto un esito diverso. Chiacchiere a
parte, lottizzazione doveva essere e lottizzazione è stata, anche perché
dalle due forze principali dell’opposizione, tra un girotondo e l’altro,
non è giunto altro che una richiesta di partecipazione subordinata, con
l’indicazione di due candidati di minoranza già lottizzati nel loro piccolo,
in quanto da riferirsi l’uno ai DS e l’altro alla Margherita. Hai
voglia, poi, a parlare della necessità di un Presidente di garanzia. L’unica
garanzia su cui si può far conto, in casi come questi, è quella di restare
all’opposizione a tempo indeterminato.
* * *
Particolarmente penoso, in questa situazione,
mi è sembrato il coinvolgimento di
due figure che, invece, di garanzia dovrebbero essere veramente, quali
il Presidente della Camera e quello del Senato, la cui funzione istituzionale
è appunto quella di assicurare la corretta dialettica tra le forze politiche
rappresentate in Parlamento, quale che sia la loro collocazione rispetto
al Governo. E anche se tutti possiamo avere le nostre idee sulla
disponibilità e la capacità di svolgere questa funzione da parte dell’onorevole
Casini e del senatore Pera, qualche illusione la si poteva ancora nutrire.
In realtà è il meccanismo che è sbagliato nel manico, nel senso che
chi ricopre una di quelle cariche altro non dovrebbero fare che presiedere,
appunto, il corpo legislativo affidatogli, mentre la nomina di un Consiglio
di amministrazione, quale che sia, è una tipica funzione da esecutivo e
con gli organi legislativi non dovrebbe avere proprio niente a che fare.
Ma, che ci volete fare, la legge che sancisce questo abominio istituzionale
risale ai bei tempi dell’Unità nazionale, quando una presidenza andava
d’ufficio alla DC e l’altra, altrettanto d’ufficio, al PCI, per cui
l’inghippo aveva lo scopo, fin troppo palese, di dare un qualche potere
di governo a un partito che tutti (i suoi dirigenti compresi) preferivano
mantenere formalmente all’opposizione. Nessuno, a quanto pare,
aveva pensato che la situazione avrebbe potuto cambiare in futuro e che
un giorno o l’altro quel tipo di diarchia non ci sarebbe stato più. Come
nessuno aveva pensato ai possibili esiti del duopolio televisivo, del sistema
maggioritario a un turno e delle altre sconsideratezze dei primi anni ’90.
Non so se lo si possa considerare un elemento di consolazione, ma
nei guai in cui ci troviamo ci siamo cacciati proprio di nostra volontà.
24.02.’02