Garanzie

La caccia | Trasmessa il: 02/24/2002



Non so se voi apprezziate le telenovelas.  Liberissimi, naturalmente, ma io, per conto mio, le detesto: anzi, se c’è una cosa che non mi stancherò mai  di deplorare è proprio la progressiva, inarrestabile, telenovellizzazione cui mi sembrano sottoposte tutte le forme di intrattenimento narrativo in televisione, a partire dalle mie predilette serie di telefilm polizieschi.   La narrativa, dal mio punto di vista, richiede soprattutto una trama robusta, e quando gli autori rinunciano del tutto alla trama, perché il loro unico problema è quello di sfruttare tutte le possibili forme di relazioni interpersonali tra i personaggi, non può conseguirne che ripetitività e tedio.  Qualcosa del genere, come senz’altro ricorderete, aveva scritto Aristotele a proposito della maggior importanza, nella tragedia, del mthos rispetto agli altri elementi drammatici, ma non voglio metterla giù troppo difficile.  Dirò semplicemente che nelle telenovelas, di solito, la conclusione è troppo prevedibile perché l’intreccio sia davvero interessante.
        Ma non mi sono mai imbattuto, nella mia lunga carriera di spettatore annoiato, in una telenovela così scialba, tediosa e – soprattutto – prevedibile quanto quella della nomina del nuovo Consiglio di Amministrazione della RAI.  Sono state, lo ammetterete, due settimane insopportabili.  Quattordici giorni di cronache e indiscrezioni giornalistiche, di finti dibattiti e di pseudoeditoriali, di scambi di male parole mielate e di comunicati più o meno accuratamente calibrati tra le più alte cariche dello Stato, compreso – ahimè – il Presidente della Repubblica.  Due settimane di incontri annunciati e mancati, di lettere riservate il cui contenuto era noto a chiunque, di impegni chiaramente mendaci, di moniti solenni pronunciati, con tutta evidenza, al solo scopo di dar aria alla bocca, di intrighi meschini e di ridicole rodomontate, il tutto per giungere allo scontato, prevedibilissimo, esito cui abbiamo finalmente assistito.  Tre posti al Polo, che ha la maggioranza e intende servirsene per riorganizzare il servizio pubblico in vista dei propri interessi privati, e due all’Ulivo, che senza non avrebbe proprio potuto vivere, nel senso che si può anche star fuori dal governo, se proprio non se ne può fare a meno, ma fuori dalla RAI proprio no, anche se non si capisce bene che cosa ci staranno a fare in quella sede quei due meschinetti.
        Alzi la mano chiunque avesse previsto un esito diverso.   Chiacchiere a parte, lottizzazione doveva essere e lottizzazione è stata, anche perché dalle due forze principali dell’opposizione, tra un girotondo e l’altro, non è giunto altro che una richiesta di partecipazione subordinata, con l’indicazione di due candidati di minoranza già lottizzati nel loro piccolo, in quanto da riferirsi l’uno ai DS e l’altro alla Margherita.  Hai voglia, poi, a parlare della necessità di un Presidente di garanzia.  L’unica garanzia su cui si può far conto, in casi come questi, è quella di restare all’opposizione a tempo indeterminato.

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Particolarmente penoso, in questa situazione,         mi è sembrato il coinvolgimento di due figure che, invece, di garanzia dovrebbero essere veramente, quali il Presidente della Camera e quello del Senato, la cui funzione istituzionale è appunto quella di assicurare la corretta dialettica tra le forze politiche rappresentate in Parlamento, quale che sia la loro collocazione rispetto al Governo.   E anche se tutti possiamo avere le nostre idee sulla disponibilità e la capacità di svolgere questa funzione da parte dell’onorevole Casini e del senatore Pera, qualche illusione la si poteva ancora nutrire.  In realtà è il meccanismo che è sbagliato nel manico, nel senso che chi ricopre una di quelle cariche altro non dovrebbero fare che presiedere, appunto, il corpo legislativo affidatogli, mentre la nomina di un Consiglio di amministrazione, quale che sia, è una tipica funzione da esecutivo e con gli organi legislativi non dovrebbe avere proprio niente a che fare.  Ma, che ci volete fare, la legge che sancisce questo abominio istituzionale risale ai bei tempi dell’Unità nazionale, quando una presidenza andava d’ufficio alla DC e l’altra, altrettanto d’ufficio, al PCI, per cui l’inghippo aveva lo scopo, fin troppo palese, di dare un qualche potere di governo a un partito che tutti (i suoi dirigenti compresi) preferivano mantenere formalmente all’opposizione.   Nessuno, a quanto pare, aveva pensato che la situazione avrebbe potuto cambiare in futuro e che un giorno o l’altro quel tipo di diarchia non ci sarebbe stato più.  Come nessuno aveva pensato ai possibili esiti del duopolio televisivo, del sistema maggioritario a un turno e delle altre sconsideratezze dei primi anni ’90.   Non so se lo si possa considerare un elemento di consolazione, ma nei guai in cui ci troviamo ci siamo cacciati proprio di nostra volontà.

24.02.’02