Fotografie di guerra

La caccia | Trasmessa il: 04/11/1999



Di fotografie di guerra – città bombardate, ponti spezzati, raffinerie in fiamme, colonne di profughi – sono ovviamente pieni i giornali, ma oggi vorrei parlarvi, se me lo consentite, di due immagini che, nel loro accostamento, mi sono sembrate particolarmente significative.  Le ha pubblicate il Corriere della sera di qualche giorno fa (mercoledì 7 aprile), in prima pagina.  La prima, posta direttamente sotto il titolo principale (“La Nato respinge la tregua di Milosevic”: nove colonne) raffigura, su uno sfondo di edifici variamente smozzicati,  un ammasso di rovine da cui spunta, terrificante, una mano umana.  In primo piano una figura in uniforme proietta, con una torcia elettrica, un raggio di luce sul macabro reperto.  Si tratta, apprendiamo dalla didascalia, di una scena colta ad Aleksinac, la città mineraria serba colpita “per errore” dalle bombe della Nato.  L’uomo in uniforme è un poliziotto, evidentemente impegnato nei soccorsi.  Anche nella seconda foto, collocata immediatamente sotto, accanto al titolo in taglio centrale (“Albania, spariti aiuti ai profughi”: cinque colonne) figura un uomo in uniforme: un militare in tuta mimetica che porge il biberon a un esserino che tiene teneramente in braccio.  Si tratta, dice sempre la dicitura, di un militare gallese intento ad allattare un neonato albanese in un ospedale da campo di Stekovec, in Macedonia, dove si trovano ammassati (si trovavano) migliaia di rifugiati kosovari.  La morte e la vita, insomma: la guerra vista come distruzione e tragedia, ma anche come occasione di solidarietà.  E due messaggi che vengono, evidentemente, dai due schieramenti opposti: la foto di Aleksinac evidenzia il punto di vista serbo, sottolineando lo strazio delle vittime civili; quella di Stekovec ci fa capire come i responsabili Nato vedano, o cerchino di far vedere, se stessi e i loro uomini: persone impegnate, prima di tutto, in un compito di solidarietà, che prevede sì qualche azione distruttiva, ma con il fine sempre presente di salvare degli innocenti  (in effetti, di foto di soldati intenti a prodigarsi a favore di quegli innocenti per eccellenza che sono i bambini sui giornali di questi giorni ne compaiono spesso: lo stesso Corriere, sfiorando un po’ il ridicolo, ce ne ha inflitto un’altra appena l’altro ieri).
        Strano però.  A me quelle immagini non sono sembrate affatto convogliare il messaggio che erano così evidentemente deputate ad esprimere.  Era ovvio, per esempio, che il poliziotto serbo non fosse in alcun modo responsabile della scena di rovine in cui compariva, se non forse nei termini della responsabilità collettiva che le potenze, chiamiamole così, hanno voluto assegnare a tutto il popolo di cui fa parte, eppure, la sua presenza, in quel contesto, con quell’uniforme, dava un’impressione stranamente sgradevole, come se a far crollare quegli edifici fosse stato lui.  Ed era altrettanto ovvio che il militare gallese, con quella sua aria mite, con quel gesto di tenerezza un po’ impacciata con cui svolgeva, lui così evidentemente virile, il ruolo della brava mammina, doveva suscitare simpatia e commozione, facendo passare in secondo piano le responsabilità dei suoi commilitoni per le stragi di cui l’altra foto era testimonianza, ma, credetemi, proprio non ci riusciva.   Sarà il fatto che le tute mimetiche e le bottiglie di latte dal punto di vista iconografico proprio non quagliano (mentre quagliano, eccome, le uniformi e le rovine), ma a chiunque avesse un briciolo di sensibilità quell’immagine faceva venire soprattutto voglia di strappare il bimbo dalle braccia di quel grosso soldato minaccioso e di portarlo al sicuro.  Già, perché la sorte dei profughi kossovari in Macedonia non è esattamente la più sicura e chissà che fine avrà fatto, una volta scattata la foto, quel povero bambino.
        D’altronde sappiamo tutti che quello di presentarsi come organizzazioni eminentemente benefiche è un vezzo comune, da qualche tempo, a tutti gli eserciti.   Gli Stati Maggiori e i mercanti di armi sono quelli di sempre, ma la cultura contemporanea ha interiorizzato quel tanto di ipocrisia collettiva che impedisce di gloriarsi, come un tempo, della propria capacità di fare a pezzi il nemico.  E della guerra, quando proprio non si può fingere di non farla, si sottolinea la moralità sul piano dei fini, come se bastasse assegnarle certi lodevoli scopi (por fine a un’ingiustizia, restituire dei diritti a chi ne è privato, e via dicendo) per farne una di quelle “operazioni umanitarie” in cui gli eserciti di oggi sono ostensibilmente specializzati.   Il che è evidentemente impossibile, perché è la natura stessa della guerra a precluderle un ruolo morale qualsiasi.   La guerra è indifferente, per pura necessità operativa, alle responsabilità individuali; è strutturata in modo di colpire certuni per determinare l’atteggiamento di certi altri; vede nelle sue vittime – militari o civili, non importa – la materia grezza di una contabilità da far valere in sede di bilancio finale (“carne da cannone”, si diceva una volta) e contravviene così per definizione a quella insostituibile norma della ragion pratica che impone di considerare ogni essere umano come fine e non come mezzo.   È un’attività intrinsecamente immorale che non può essere riportata alla dimensione etica né in nome dei fini né in quello della necessità.  Una descrizione “etica” della guerra è solo propaganda.
        Già.  Anche il piccolo kosovaro stretto nelle braccia del militare gallese è stato usato, da chi ha diffuso la sua immagine, come strumento di propaganda.  Come un mezzo, appunto.  Sarà per questo che quella foto non può proprio convincere.

11.04.99