Di fotografie di guerra – città bombardate,
ponti spezzati, raffinerie in fiamme, colonne di profughi – sono ovviamente
pieni i giornali, ma oggi vorrei parlarvi, se me lo consentite, di due
immagini che, nel loro accostamento, mi sono sembrate particolarmente significative.
Le ha pubblicate il Corriere della sera di qualche giorno fa (mercoledì
7 aprile), in prima pagina. La prima, posta direttamente sotto il
titolo principale (“La Nato respinge la tregua di Milosevic”: nove colonne)
raffigura, su uno sfondo di edifici variamente smozzicati, un ammasso
di rovine da cui spunta, terrificante, una mano umana. In primo piano
una figura in uniforme proietta, con una torcia elettrica, un raggio di
luce sul macabro reperto. Si tratta, apprendiamo dalla didascalia,
di una scena colta ad Aleksinac, la città mineraria serba colpita “per
errore” dalle bombe della Nato. L’uomo in uniforme è un poliziotto,
evidentemente impegnato nei soccorsi. Anche nella seconda foto, collocata
immediatamente sotto, accanto al titolo in taglio centrale (“Albania,
spariti aiuti ai profughi”: cinque colonne) figura un uomo in uniforme:
un militare in tuta mimetica che porge il biberon a un esserino che tiene
teneramente in braccio. Si tratta, dice sempre la dicitura, di un
militare gallese intento ad allattare un neonato albanese in un ospedale
da campo di Stekovec, in Macedonia, dove si trovano ammassati (si trovavano)
migliaia di rifugiati kosovari. La morte e la vita, insomma: la guerra
vista come distruzione e tragedia, ma anche come occasione di solidarietà.
E due messaggi che vengono, evidentemente, dai due schieramenti opposti:
la foto di Aleksinac evidenzia il punto di vista serbo, sottolineando lo
strazio delle vittime civili; quella di Stekovec ci fa capire come i responsabili
Nato vedano, o cerchino di far vedere, se stessi e i loro uomini: persone
impegnate, prima di tutto, in un compito di solidarietà, che prevede sì
qualche azione distruttiva, ma con il fine sempre presente di salvare degli
innocenti (in effetti, di foto di soldati intenti a prodigarsi a
favore di quegli innocenti per eccellenza che sono i bambini sui giornali
di questi giorni ne compaiono spesso: lo stesso Corriere, sfiorando un
po’ il ridicolo, ce ne ha inflitto un’altra appena l’altro ieri).
Strano
però. A me quelle immagini non sono sembrate affatto convogliare
il messaggio che erano così evidentemente deputate ad esprimere. Era
ovvio, per esempio, che il poliziotto serbo non fosse in alcun modo responsabile
della scena di rovine in cui compariva, se non forse nei termini della
responsabilità collettiva che le potenze, chiamiamole così, hanno voluto
assegnare a tutto il popolo di cui fa parte, eppure, la sua presenza, in
quel contesto, con quell’uniforme, dava un’impressione stranamente sgradevole,
come se a far crollare quegli edifici fosse stato lui. Ed era altrettanto
ovvio che il militare gallese, con quella sua aria mite, con quel gesto
di tenerezza un po’ impacciata con cui svolgeva, lui così evidentemente
virile, il ruolo della brava mammina, doveva suscitare simpatia e commozione,
facendo passare in secondo piano le responsabilità dei suoi commilitoni
per le stragi di cui l’altra foto era testimonianza, ma, credetemi, proprio
non ci riusciva. Sarà il fatto che le tute mimetiche e le bottiglie
di latte dal punto di vista iconografico proprio non quagliano (mentre
quagliano, eccome, le uniformi e le rovine), ma a chiunque avesse un briciolo
di sensibilità quell’immagine faceva venire soprattutto voglia di strappare
il bimbo dalle braccia di quel grosso soldato minaccioso e di portarlo
al sicuro. Già, perché la sorte dei profughi kossovari in Macedonia
non è esattamente la più sicura e chissà che fine avrà fatto, una volta
scattata la foto, quel povero bambino.
D’altronde
sappiamo tutti che quello di presentarsi come organizzazioni eminentemente
benefiche è un vezzo comune, da qualche tempo, a tutti gli eserciti.
Gli Stati Maggiori e i mercanti di armi sono quelli di sempre, ma la cultura
contemporanea ha interiorizzato quel tanto di ipocrisia collettiva che
impedisce di gloriarsi, come un tempo, della propria capacità di fare a
pezzi il nemico. E della guerra, quando proprio non si può fingere
di non farla, si sottolinea la moralità sul piano dei fini, come se bastasse
assegnarle certi lodevoli scopi (por fine a un’ingiustizia, restituire
dei diritti a chi ne è privato, e via dicendo) per farne una di quelle
“operazioni umanitarie” in cui gli eserciti di oggi sono ostensibilmente
specializzati. Il che è evidentemente impossibile, perché è la natura
stessa della guerra a precluderle un ruolo morale qualsiasi. La
guerra è indifferente, per pura necessità operativa, alle responsabilità
individuali; è strutturata in modo di colpire certuni per determinare l’atteggiamento
di certi altri; vede nelle sue vittime – militari o civili, non importa
– la materia grezza di una contabilità da far valere in sede di bilancio
finale (“carne da cannone”, si diceva una volta) e contravviene così
per definizione a quella insostituibile norma della ragion pratica che
impone di considerare ogni essere umano come fine e non come mezzo.
È un’attività intrinsecamente immorale che non può essere riportata alla
dimensione etica né in nome dei fini né in quello della necessità. Una
descrizione “etica” della guerra è solo propaganda.
Già.
Anche il piccolo kosovaro stretto nelle braccia del militare gallese
è stato usato, da chi ha diffuso la sua immagine, come strumento di propaganda.
Come un mezzo, appunto. Sarà per questo che quella foto non
può proprio convincere.
11.04.99