Il Presidente del Consiglio, a uno dei
suoi alleati che si rammaricava, in Parlamento, per la decisione governativa
di stanziare la bazzecola di 1.200 miliardi a favore della scuola privata,
ha risposto che la storia va avanti. Ad analoghi argomenti è ricorso
il Ministro della Pubblica Istruzione in occasione di non ricordo più quale
dibattito televisivo. La storia va avanti e fa piazza pulita di problemi
obsoleti e di polemiche ormai senza significato. Ostinarsi a difendere
i postulati dello stato laico, quelli per cui le chiese, con tutto il rispetto
dovuto, sono organizzazioni sostanzialmente private, che debbono essere
libere di svolgere le proprie funzioni, figuriamoci, ma non possono pretendere
a tal fine l’appoggio di quello che una volta si chiamava il braccio secolare,
che anzi ha il preciso dovere di vigilare perché nessuna di esse prevarichi
la libertà di coscienza dei cittadini, significa soltanto coltivare una
propria personale fissazione, indulgere a un anticlericalismo fuori del
tempo. Chi si ostina a farlo va, più che combattuto, ignorato. E
– soprattutto – compatito.
Credo
che a nessuno dei nostri ascoltatori sfugga come, con questo tipo di argomentazioni,
si possa sostenere praticamente di tutto. La storia va sempre avanti,
nel senso che finora a nessuno è riuscito di invertire la direzione del
tempo, e tutto quello che resta indietro è, per definizione, superato.
Basta conferire a queste ovvie metafore spaziali un valore assoluto
e il gioco è fatto. Ma le ovvietà restano ovvietà e dire che la storia
va avanti non è molto diverso che sostenere che è meglio essere vivi che
morti. O, nel caso, che chi vince ha sempre ragione.
D’Alema
e Berlinguer appartengono a una tradizione che non ha mai annesso particolare
importanza alle tematiche laiciste e hanno, naturalmente, le loro gatte
da pelare. Dipendono per restare in sella del voto dei popolari e
dei gladiatori e hanno, soprattutto, bisogno della benevolenza dei vescovi,
a partire da quello di Roma, che, si sa, una certa influenza nel nostro
paese la esercita. Per cui hanno deciso di comperarsi quel voto e
quella benevolenza al prezzo, in fondo tutt’altro che esagerato, di 1.200
miliardi. È vero che i finanziamenti alla scuola privata sono esclusi
dalla Costituzione, ma anche la Costituzione – perbacco! – è stata scritta
qualche anno fa e può considerarsi a pieno titolo superata.
Sembra
tuttavia che l’argomento, nonostante la sua esaustività, non convinca
fino in fondo nemmeno loro. Infatti ne hanno elaborato un altro,
che il Ministro della Pubblica Istruzione ha largamente diffuso nella settimana
testé trascorsa, tra l’altro con un’intervista alla nostra radio. Nessuno,
ha spiegato, intende violare la Costituzione, perché quei soldi non andranno
(sì, avete capito bene, non andranno) alla scuola privata. Andranno
agli studenti bisognosi, in nome del diritto allo studio, per permettergli
di affrontare le spese dell’istruzione. Certo, se qualcuno di loro
se ne vorrà servire per pagare le rette delle scuole dei preti e delle
suore non glielo si potrà impedire. Ma il diritto allo studio è il
diritto allo studio, no?, e ognuno può decidere a piacer suo in quale sede
esercitarlo.
In
un paese in cui l’istruzione pubblica, notoriamente, è gratuita in ogni
ordine e grado, e se non lo è dovrebbe esserlo, questo secondo argomento
è straordinariamente capzioso. Non riesce certo a nascondere l’ovvia
verità per cui quei quattrini escono comunque dalle casse dello stato e
finiranno comunque in quelle del clero. E allora eccone un terzo:
anche le scuole del clero, ci siamo sentiti spiegare in questi giorni,
sono pubbliche. Sono aperte a chiunque voglia frequentarle: esercitano,
quindi, una funzione pubblica, una benefica funzione di supplenza alle
manchevolezze di uno stato che, con tutta la sua buona volontà, non può
assicurare a tutti la scuola che fa per loro.
E
forse a questo punto sarebbe veramente il caso di pregare il Presidente
del Consiglio, il Ministro della Pubblica Istruzione e i loro portavoce
e reggicoda vari di smetterla di dire troppe asinate. Perché è qui
che sta precisamente il problema del finanziamento alle scuole private.
In fondo un articolo della Costituzione si può sempre abrogare, o
modificare, o interpretare creativamente e anche se quest’ultima soluzione
non è forse la più corretta non ce ne scandalizzeremmo più che tanto. Ma
ci scandalizziamo, e non poco, all’idea di affidare a una chiesa (o a
più chiese) una funzione di supplenza pubblica. Non scherziamo.
Le chiese, si sa, non sono tenute a garantire la libertà dei coscienza
dei loro adepti. Quando gestiscono delle scuole non lo fanno per
amore disinteressato della cultura: di fatto, il loro progetto educativo
prevede immancabilmente l’impiego di insegnanti selezionati in base a
criteri di omogeneità ideologica, con l’ovvio fine di imporre ai discenti
la stessa omogeneità. Si può discutere a lungo se questo sia lecito
e ammissibile in una società pluralista, in cui il confronto e la libera
scelta tra opzioni ideologiche diverse dovrebbero essere considerati valori
intangibili e fondamentali e l’educazione dovrebbe essere soprattutto
educazione al dialogo, ma è poco ma sicuro che non può trattarsi di un
progetto che riguardi l’intera comunità. Pretendere di realizzarlo
a spese pubbliche, con i quattrini di chi non lo condivide, ma è destinato,
anzi, a esserne danneggiato, è chiedere veramente troppo. Sarà una
fissazione, ma è una fissazione a cui continuiamo a essere affezionati.
08.11.’98