Figure retoriche

La caccia | Trasmessa il: 06/12/2011


    Quando frequentavo la quarta ginnasio, qualche anno fa, tra i libri in adozione figurava, se ben ricordo, un “manualetto di metrica e di retorica”. Vi ci si potevano attingere informazioni preziose, come quelle relative alla struttura dell'endecasillabo, dell'ottonario e della terzina, o apprendervi come fosse organizzato un sonetto, in quante e quali parti andasse divisa la strofe di una canzone petrarchesca o quale differenza corresse tra una sestina semplice e una sestina provenzale. Vi era contenuto, inoltre, l'elenco completo delle “figure retoriche”, intendendo per tali, all'ingrosso, quei procedimenti stilistici cui la lingua letteraria ricorre per conferire un tono particolare al discorso. La definizione può sembrar vaga e, naturalmente, qualsiasi combinazione sintattica un po' inconsueta può essere considerata una figura retorica, nella misura in cui la si impiega per ottenere un certo effetto, ma ne esiste un certo numero di codificate dalla tradizione e i piani di offerta formativa dell'epoca davano per scontato che nessun giovinetto potesse dominare la nostra bella lingua, se non sapesse a menadito cosa fosse un'anafora (“la “ripetizione di un termine per rafforzare l'espressione”), o una ipallage (“specie di scambio di costrutto tra due termini uniti da un rapporto sintattico”), o un'apostrofe (che consiste, come ognun sa, nel “rivolgere improvvisamente la parola ad una persona o a una cosa anche lontana”). Neppure quelle definizioni erano, forse, perspicue e sull'utilità di mandare a memoria siffatti elenchi era lecito nutrire dei dubbi, anche perché quando un certo costrutto è entrato nell'uso linguistico i parlanti se ne servono tranquillamente pur se non conoscono il nome che gli ha dato chissà quale oscuro grammatico e si può ben ripetere a un amico un po' scemo “te l'ho già detto cento volte” ignorando bellamente di impiegare una iperbole, ma così procedeva la scuola a quei tempi e su quelle classificazioni dovevamo romperci quotidianamente il capo. Oggi credo che non lo si faccia più e che gli appartenenti alle più giovani generazioni siano liberi di seguire il proprio destino senza avere la minima nozione di enallagi, iperbati e ipotiposi. Francamente, un poco li invidio.
    Quelle figure, tuttavia, pur ignorate prosperano. Alcune di esse, anzi, non hanno mai goduto di tanto prestigio sociale. Pensate all'ossimoro, quella espressione che si forma abbinando due termini – di solito, ma non sempre, un nome e un aggettivo – dal senso diametricamente opposto, come quando si evoca un “clamoroso silenzio” o si cita un “illustre sconosciuto”. Dai manuali per il ginnasio e dai sonetti del cavalier Marino, che ne era assai ghiotto, gli ossimori sono dilagati nella stampa quotidiana ad alta diffusione. Oggi vanno fortissimo: visto che il loro effetto è quello di colpire, con la forza dell'apparente contraddizione, l'attenzione di chi ascolta, sono l'ideale per chi sia in cerca di slogan, motti, parole d'ordine e altre espressioni destinate a imprimersi nella mente altrui. Rappresentano, così, la gioia del pubblicitario e del politico, due categorie di parlanti che della contraddizione in sé non si sono mai preoccupati molto, ma della capacità di plagiare il prossimo sì. I politici, poi, contraddistinti come sono dall'innata tendenza a promettere tutto e il contrario di tutto, vi ci si trovano, come dire, nel campo dei loro fagioli. Gli slogan più fortunati della nostra storia politica, come quelli di chi prometteva “un progresso senza avventure” o si vantava di essere “un partito di lotta e di governo”, non sono altro che ossimori attenuati.
    E per trarne vantaggio non è neanche necessario attenuarli. Leggo che Giuliano Ferrara ha organizzato e diretto, al Teatro Capranica di Roma, un convegno di “liberi servi”, intendendo per tali – se ho capito bene, quegli intellettuali e operatori dell'informazione risolutamente decisi a sostenere l'operato del capo del governo, che liberamente eleggono a loro guida e signore. Be', se “liberi servi” non è un ossimoro, è difficile trovarne un altro. Oltretutto, non è il primo che l'ex maestro del giornalismo polemico (dico ex perché mi sembra un po' in ribasso) introduce nel lessico politico nazionale: a lui risale anche la definizione, ormai accolta nell'uso comune e altrettanto ossimorica, di “atei devoti”. È a colpi di contraddizioni verbali, evidentemente, che il simpatico ciccione barbuto cerca di imporsi nel dibattito in corso. Per uno che di contraddizioni ne ha vissuto ben altre – vi ricordate di quella volta che ha raccontato a tutti di essere stato un agente segreto ? – è già un passo avanti.
    Il convegno, a quanto mi è sembrato di capire dai giornali, è stato un mezzo flop. I convenuti, unanimi nel chiedere al loro leader un “colpo di reni”, un ritorno all'energia e alla capacità innovativa di un tempo, non sono stati in grado di dare dei contenuti precisi all'istanza, sono stati umiliati dalla mancata epifania del loro capo e padrone e hanno finito per scatenarsi scompostamente contro un paio di disgraziate chiamate per spiegare loro il punto di vista della sinistra su Berlusconi e ben gli sta (alle disgraziate, dico, che così imparano). E forse il perché si capisce. L'ossimoro, dal punto di vista semantico, comporta una qualche forma di ambiguità esistenziale. Secondo Niccolò da Cusa, come certamente saprete, la nostra scienza è una forma di “dotta ignoranza”, perché, pur applicandosi senza problemi (beh...) all'infinito esplicitarsi dei fenomeni mondani, non riesce in alcun modo a dar conto dell'Unità che tutti li comprende. Al dire di Toni Dallara, la donna che canta può ben essere assimilata a un blocco di “ghiaccio bollente” perché il suo sguardo è gelido, sì, ma fa ardere comunque il desiderio nelle vene dei maschi concupiscenti, primo tra tutti l'autore. Anche il concetto di “ateo devoto” non presenta soverchie difficoltà, perché non è necessario credere nel Padreterno per apprezzare la funzione di controllo sociale che la chiesa esercita sul piano mondano. Ma essere un “libero servo” forse è più difficile, perché i due termini della contraddizione non riescono veramente a convivere. La loro articolazione può porsi, se mai, sul piano diacronico, nel senso che uno può benissimo decidere di asservirsi a qualcuno e farlo liberamente, ma in base al vecchio principio del “chi vende non è più suo” poi asservito resta e libero non è più e se Berlusconi gli manda a dire che ha altro da fare, a quel convegno non ha la minima intenzione di farsi vedere e che al colpo di reni non ci pensa neanche, non può far altro che bofonchiare “sì, capo” e cercarsi un altro ossimoro che funzioni meglio. Per essere l'uomo intelligente che è, Ferrara ogni tanto fa delle incredibili stupidaggini. Eh: quella di “intelligente stupidità” potrebbe essere una proposta da sottoporgli.

    12.06.'11


    Nota

    Il mio manualetto di retorica del ginnasio devo averlo perso con gli anni. Le brevi definizioni delle figure retoriche che cito vengono così dal Glossario di una vecchia enciclopedia letteraria, Libri nel tempo, Zanichelli, Bologna, 1957.