Non avendo, ahimè, l’abitudine di frequentare
i varietà televisivi, mi sono perso la recente esibizione del ministro
Bossi, che, ospite in studio di Massimo Ranieri, ne è stato aizzato a recitare
in pubblico, nel testo originale, una poesia di Salvatore Di Giacomo. Me
ne è giunto soltanto un breve frammento, ritrasmesso per radio, con la
collaborazione di un ascoltatore volonteroso, dalla nostra Cecilia di Lieto
e, per quel che vale il mio giudizio, mi è sembrato che dallo scontro siano
usciti malconci tanto Di Giacomo quanto Bossi. Ma, naturalmente,
il leader della Lega non fa l’attore di professione e, in quanto nativo
di Cassano Magnago, non è tenuto a conoscere il dialetto napoletano. Se
si è prestato alla bisogna lo ha fatto, credo, per smentire la voce popolare
che lo vuole pregiudizialmente ostile ai terùn e non è il caso di stare
a sottilizzare sulla pronuncia e sulla dizione. Nei suoi panni, ve
lo assicuro, io me la sarei cavato assai peggio.
C’è
un dubbio, tuttavia, che mi assilla e di cui vorrei, in questo 14 ottobre,
mettervi a parte. Poniamo il caso che il ministro, ospite in un programma,
diciamo, di Lili Gruber, fosse stato richiesto di esibirsi nella recitazione
della Mignon di Goethe o della Loreley di Heine. O che, in altra
sede televisiva, un conduttore anglofono – ce ne sono tanti, ormai –
lo avesse pregato di recitare, per cortesia, qualche passaggio di Shakespeare,
che so, il monologo del portiere nel Macbeth o lo splendido sonetto LXXIII
(due brani che, chissà perché, mi sembrano addirsi al nostro Umbertone).
Cosa avrebbe fatto? Posso sbagliarmi, naturalmente, ma ho l’impressione
che non avrebbe accettato tanto facilmente. Si sarebbe schiarito
la gola, avrebbe manifestato un po’ di imbarazzo, avrebbe azzardato qualche
battuta, ma, adducendo la propria ignoranza della lingua, avrebbe senz’altro
declinato l’invito. Né alcuno, invero, avrebbe potuto biasimarlo.
Il
problema, naturalmente, è quello delle lingue. Non è necessario sapere
le lingue per fare il ministro e ben pochi ministri – di fatto – le sanno.
Non è tutta colpa loro: un certo disinteresse per le lingue straniere
ha sempre caratterizzato la scuola e la cultura italiana. Ma nessuno,
nemmeno Berlusconi, che timido certo non è, si azzarderebbe a parlare in
pubblico una lingua che non conosce. È un problema, come minimo,
di cortesia. E anche se Bossi per la sua cortesia non è noto, non
si capisce proprio perché si sia sentito autorizzato a lanciarsi in quella
rovinosa interpretazione di una gemma della poesia partenopea.
Facile,
direte voi. Il napoletano non è una lingua straniera. È un
dialetto. Siamo tutti italiani, compresi i leghisti, e tutti i dialetti
italiani, in un certo senso, sono cosa nostra. Soprattutto in una
prospettiva federale che intende riconoscere alle varie Regioni piena dignità
su ogni piano, quello culturale e linguistico incluso.
D’accordo.
Ma c’è un particolare di cui tener conto. Lingue e dialetti,
ve lo assicuro, non sono quelle entità distinte che comunemente si pensa.
Dal punto di vista glottologico un dialetto è una lingua, e come
tale viene trattato e studiato. Non è lecito attribuirgli una dignità
o una complessità maggiore o minore. Di fatto, gli unici elementi
cui si può ricorrere per tracciare la distinzione sono di natura extralinguistica,
nel senso che di solito parliamo di “lingue” e non di “dialetti” per
quegli idiomi utilizzati dai corpi politici costituiti o adottati in forma
scritta a fini letterari. Ma nulla vieta di scrivere pregevoli poesie
in napoletano, come ha fatto, appunto, Di Giacomo, o di utilizzare il lombardo,
o il piemontese, a livello ufficiale, come auspicano, mi sembra, non pochi
seguaci dell’onorevole Bossi. Sono i parlanti, ciascuno in base
ai propri criteri e ai propri sistemi di valore, a decidere quali sono
le lingue “serie”, che meritano studio e applicazione, e quelle, per
così dire, di serie B.
E
allora? E allora non ci piove: chi affronta in pubblico una lingua
(o un dialetto, fa lo stesso) che non conosce, massacrandone senza necessità
la fonetica e le caratteristiche espressive, dimostra, quali che siano
le sue intenzioni, ben poco rispetto per quell’idioma e per la comunità
che in esso si riconosce. Un atteggiamento che non ci si aspetterebbe
da uno che fa il ministro per l’ordinamento regionale e professa, a parole,
il più ardente federalismo. Bossi può aver avuto le migliori intenzioni
di questo mondo, ma avrebbe dovuto pensarci. L’esibizione di martedì
scorso dimostra che il suo federalismo, è, come minimo, sbilenco. Come
quello di chi pensasse che tutte le regioni sono uguali, ma che alcune,
come i maiali nella fattoria di Orwell, sono più uguali delle altre.
C.O. – 08.10.2001