È da qualche tempo che mi capita sempre più spesso (anzi, in un paio di
occasioni devo avervene già accennato) di immalinconirmi di fronte ai manifesti
pubblicitari. Nella maggior parte dei casi è perché proprio non li
capisco, nel senso che dalla loro combinazione di parole e immagini non
riesco assolutamente a evincere quello che mi si vuole dire e da questa
incapacità, che non sarà forse il sintomo di una forma precoce del morbo
di Alzheimer, ma denota comunque una prontezza mentale minore di quella
che auspicherei, mi sento inevitabilmente frustrato. Non sempre è
possibile cavarsela attribuendo il difetto di comunicazione al rumore di
fondo o all’inettitudine di chi ha concepito il messaggio. E non
vale consolarsi, naturalmente, pensando che certi messaggi meno li si capisce
meglio è.
Poche cose, comunque, mi hanno tanto intristito
negli ultimi mesi quanto il manifesto di quella compagnia aerea che
affida la pretesa di essere considerata, chissà in base a quali parametri,
“rivoluzionaria” all’esibizione di un’immagine del Che Guevara. Un
Che, beninteso, riveduto e corretto, che, dell’iconografia tradizionale,
conserva soltanto il basco (senza la stella rossa) e il sigaro Avana, un
Che abbronzato, più che dal sole della Sierra, dalla luce delle apposite
lampade, pettinato all’ultima moda in una perversa imitazione dell’originaria
scapigliatura e inguainato, come se non bastasse, in un attillato
completo fumo di Londra, con tanto di camicia immacolata, cravatta a tinta
unita e gemelli da polso, con un biglietto della compagnia in questione
in vista nel taschino della giacca. Una specie di Guevara dott. Ernesto,
insomma, in una versione paleo-yuppy (o neo-berlusconionana, fa lo stesso)
che non può che gridare vendetta al cospetto degli dei ed è destinata inevitabilmente
a deprimere quanti, se non altro in memoria dei miti della propria giovinezza,
portano ancora un po’ di rispetto alla sua figura.
È vero, d’altronde, che nei trentacinque anni
che ci separano dalla sua morte, la figura e il ricordo del Che hanno subito
le trasformazioni più incredibili. A Cuba, dove se ne onora la memoria,
gli hanno eretto un mausoleo e ne hanno piazzato il ritratto sulle banconote
da tre pesos, due forme di omaggio che non so quanto lui avrebbe gradito,
anche se Fidel Castro ha confidato a un giornalista italiano di vederlo
spesso in sogno e di chiedergli, e ottenerne, assistenza e consiglio. In
un certo numero di chiese dell’America latina la sua effigie è identificabile
nei cori dei santi e degli angeli, o, a seconda dell’orientamento teologico
dell’episcopato, nelle legioni dei demoni e dei dannati. In quelle
regioni della Bolivia rurale che hanno visto la sua ultima, tragica avventura,
se ne invoca il nome per scongiurare le malattie del bestiame. E
tutti sappiamo quale uso poliedrico e spregiudicato (e comunque di segno
piuttosto mercantile) si sia fatto, in tutto il mondo, ma particolarmente
qui da noi in Europa, della celebre fotografia che Alberto Diaz Korda gli
scattò il 5 marzo 1960, mentre partecipava ai funerali delle vittime dell’esplosione
di un cargo francese nel porto della capitale.
Si potrebbe osservare che anche quell’immagine, destinata a figurare,
com’è noto, su un numero incredibile di poster, distintivi, magliette
e via andare e a subire più rielaborazioni grafiche di quella della Gioconda,
fu il frutto, in definitiva, di una sorta di manipolazione, perché il fotografo
la ottenne isolando dallo sfondo il primo piano del soggetto ed eliminando
le figure che l’affiancavano, permettendo in tal modo ai futuri fruitori
di vedere il prototipo dell’eroico guerrigliero in quella che, a voler
essere proprio precisi, era l’istantanea del presidente della Banca centrale
di Cuba intervenuto a una pubblica cerimonia, ma questo, naturalmente,
conta assai poco. Korda, che era presente alle esequie come fotografo
di “Revolución”, un periodico semiufficiale, non soddisfece, forse, le
esigenze dei suoi committenti, che infatti si guardarono bene dal pubblicare
quella foto (che sarebbe stata riscoperta e resa famosa, anni dopo, da
Giangiacomo Feltrinelli), ma seppe cogliere ed esprimere un certo alone
romantico, tutt’altro che estraneo alla personalità di un uomo che all’impegno
politico non avrebbe mai sacrificato la propria innata generosità. Come
tutti i veri ritratti, la sua è soprattutto una interpretazione.
Il quasi fotomontaggio pubblicitario da cui siamo partiti, al contrario,
non interpreta né esprime proprio niente. È solo un falso, un falso
che più falso non si può. E visto che il Che, dopo tutto, in nome
delle sue convinzioni andò coscientemente a farsi ammazzare, ripugna davvero
vedere come oggi si falsifichi la sua immagine per farne un uso che non
ha alcun riferimento con la sua vita e la sua leggenda. Perché, se
non gli sarebbe certo spiaciuta la prospettiva di essere un simbolo, magari
un po’ sciupacchiato, per la “gioventù ribelle” del mondo, come si diceva
allora, è dubbio che sarebbe stato interessato all’idea di fare il testimonial
per una oscura compagnia di aviazione italiana.
Ahimè. Di giovani ribelli oggi non c’è certo abbondanza e le stesse
parole di cui si nutriva la loro ribellione sembrano tristemente usurate.
Allora credevamo, magari con un eccesso di ingenuità, che il dovere
di ogni rivoluzionario fosse quello di fare la rivoluzione: oggi quel termine
viene utilizzato per un banalissimo gioco di parole su un’affiche pubblicitaria.
Pazienza. Il capitale, come il Che, da quel serio teorico marxista
che era, sapeva benissimo, non ammette né rispetto né verecondia, e i suoi
servi, pur di fare quattrini, sono disposti a fare commercio di tutto,
comprese le immagini delle proprie vittime e dei propri nemici. Naturalmente
questo è il motivo per cui, per quanti quattrini riescano ad accumulare,
resteranno sempre dei servi. A questa consapevolezza, per quanto
sia difficile trarne un’autentica consolazione, conviene restare solidamente
aggrappati..
14.04.’02